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Lavoro povero, una piaga da sanare

Il salario minimo è una sfida da affrontare e da vincere, non solo per assicurare a ogni lavoratore un retribuzione equa e dignitosa, ma anche per il rilancio della nostra economia. La Francia insegna

Lavoro povero, una piaga da sanare

La crisi economica del 2008, la stagnazione dei salari, la pandemia e le tensioni geopolitiche hanno progressivamente ridotto il potere d’acquisto delle famiglie italiane finendo per compromettere la crescita del nostro Paese e, soprattutto, il diritto di ciascun lavoratore a una retribuzione equa e sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Già prima dell’avvento della pandemia, la percentuale di lavoratori poveri in Italia era in crescita, passando dal 17,7% del 2006 al 22,2% del 2017, con una percentuale che si avvicina al 28% per le lavoratrici italiane.

L’alta inflazione di questi ultimi due anni, la crescita del costo dell’energia e della benzina rischiano però di compromettere ulteriormente il già fragile tessuto sociale del nostro Paese, pesando maggiormente sulle famiglie più numerose e con redditi inferiori. Di fronte a questa ulteriore aggravamento delle condizioni economiche la priorità di qualsiasi governo dovrebbe essere quella di affrontare la questione dei bassi salari, per un rilancio dei consumi e dell’economia nazionale. Eppure, la destra al governo continua a ignorare il grido dall’allarme di questa parte più fragile del paese e a rinviare l’esame e l’adozione di provvedimenti che potrebbero andare a beneficio di quei 3 milioni di lavoratori a rischio povertà. La strategia economica del governo, incentrata sul taglio del cuneo fiscale, ha dimostrato finora un impatto limitato sul miglioramento delle retribuzioni più basse.

L’esperienza di altri Paesi, gli studi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e della Bce dimostrano invece che l’adozione di un salario minimo legale può avere un importante effetto positivo sulla riduzione delle disuguaglianze, agendo non solo sui lavoratori direttamente impattati dal nuovo livello salariale, ma anche su coloro che sono vicini al minimo, che solitamente vedono anch’essi un aumento a cascata delle loro retribuzioni. Tra gli Stati membri dell’Ue, 21 su 27 hanno fissato un salario minimo legale, la sua introduzione non ha portato una diminuzione dell’occupazione o delle ore lavorate, come sostengono invece le forze conservatrici contrarie all’introduzione della misura. In Francia, per esempio, l’aumento percentuale del salario minimo nel 2015 ha comportato un aumento per l’11% dei lavoratori.

Sebbene in Italia la contrattazione collettiva copre oltre l’80% dei lavoratori, e non ha dunque l’obbligo di introdurre un salario minimo legale secondo la direttiva europea, non si può tener conto solo di questo dato e ignorare alcune dinamiche distorsive che hanno influito negativamente sulla capacità della contrattazione collettiva di adeguare i salari degli italiani al caro vita. I dati ci dicono che in 10 anni il totale numero di contratti collettivi nazionali depositato al CNEL è quasi raddoppiato, passando da 551 contratti nel 2012 a 1053 nel 2022. Questa impennata può essere imputata quasi esclusivamente ai sindacati non rappresentativi che siglano contratti con livelli salariali e tutele al ribasso, mettendo in difficoltà in sede di contrattazione i sindacati più rappresentativi. Su 975 contratti collettivi nazionali del settore privato depositati al CNEL solo il 22% circa è stato siglato da CGIL, CISL e UIL. In questo contesto, l’adozione di un salario minimo legale e di una buona legge sulla rappresentanza, come proposto dalle opposizioni, può contrastare efficacemente il ricorso a contratti pirata, valorizzare e supportare la contrattazione collettiva, indicando come valori minimi salariali per ciascun settore quelli individuati dai sindacati più rappresentativi. L’approvazione del salario minimo, dunque, non entra in contraddizione con la necessità che per primi abbiamo segnalato dell’estensione erga omnes dei contratti maggiormente rappresentativi, non sostituisce la contrattazione collettiva, ma semmai rafforza il potere sindacale in settori dove i contratti sono da fame o scaduti da tempo.

La proposta unitaria delle forze di opposizione, che stabilisce un salario minimo orario di 9 euro lordi, rappresenta un passo importante in questa direzione. La maggioranza ha provato, prima, ad affossare la proposta di legge, ma guardando i sondaggi ha poi preferito fare retromarcia e imporre uno stop alla discussione per almeno due mesi.

La piaga del lavoro povero avrebbe meritato un’attenzione e una risposta energica da parte della politica già nei mesi passati, ma adesso non è più rinviabile per quei milioni di lavoratori e lavoratrici che non arrivano a fine mese, fanno fatica a pagare le bollette, a mantenere l’assicurazione dell’auto, a fare una spesa straordinaria non prevista. Ci auguriamo che l’apertura di un tavolo di confronto con le opposizioni non sia solo un atto formale, perché il mancato confronto sui temi del lavoro rischia di portare a scarsi risultati, come è successo sull’equocompenso, con la destra incapace di uscire dalla dicotomia subordinato e autonomo. Serve un salto culturale nel Paese per far crescere il lavoro di qualità, che qualunque forma assume deve essere riconosciuto e dunque adeguatamente pagato o retribuito. Possiamo dunque discutere nel merito, di come costruiamo questo strumento e come rafforziamo la contrattazione collettiva, ma non possiamo più permetterci di rinviare la discussione perché la piaga del lavoro povero ogni mese che passa genera danni permanenti al nostro tessuto sociale difficili da recuperare.

Di Chiara Gribaudo (Vicepresidente del Partito Democratico) da il Libero Professionista Reloaded #16

 

 

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