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Una piazza sbagliata perché sbaglia le parole

Se tre su quattro degli organizzatori della manifestazione per Gaza usano la parola genocidio, almeno tre su quattro sbagliano l’analisi. E infatti serviva una piazza con le bandiere palestinesi insieme a quelle israeliane, come chiedeva Edith Bruck.

Una piazza sbagliata perché sbaglia le parole

L’unica piazza davvero importante, ieri, sarebbe stata quella suggerita da Edith Bruck – 94 anni, scrittrice, reduce di Auschwitz – alla quale nessuno degli organizzatori ha usato la cortesia di una risposta. Ossia una piazza in cui fossero radunati i palestinesi ansiosi di pace e ostili ad Hamas e gli israeliani ansiosi di pace e ostili a Benjamin Netanyahu (senza dimenticare, dicono Edith Bruck e la logica, la differenza fra un gruppo terroristico, fondamentalista, ispirato alla Sharia, e un governo democratico e costituzionale, per quanto malmesso, le cui leadership sono scalabili e soggette all’alternanza). Una piazza dunque in cui sventolassero con pari dignità e legittimità la bandiera israeliana e la bandiera palestinese, e tutto quanto si è sentito in proposito è stata l’apertura molto blanda e altrettanto furbina di Nicola Fratoianni, capo di Sinistra italiana: ognuno venga con la bandiera che vuole. Una frase che non significa nulla, una fuga dalla responsabilità imposta a chi invochi due popoli e due stati, e intanto dovrebbe almeno invocare una piazza e due bandiere.

Ed era difficile non impostarla così, la manifestazione di ieri, se tre dei quattro leader che l’hanno organizzata ritengono genocidio quello degli israeliani sui palestinesi (la quarta, Elly Schlein, dice pulizia etnica). Un’accusa infondata sul piano giuridico e spaventosa sul piano storico. Lo dico perché il 14 ottobre 2023, sette giorni dopo il pogrom da cui tutto ha avuto inizio, scrissi qui che la sete di vendetta di Israele non avrebbe portato da nessuna parte, e il sangue dei palestinesi non sarebbe ricaduto sulla coscienza di Hamas, come speravano i più ottimisti, poiché Hamas una coscienza non l’ha, ma su quella di Israele. E più Israele alzerà l’asticella, più la sua coscienza sarà sporca, e più Hamas sarà soddisfatto: gli servivano e gli servono i martiri per indicare la coscienza sporca di Israele.

E sempre qui, due settimane dopo, scrissi di come il nazismo fosse diventato l’alibi per l’antisemitismo collettivo e plurisecolare, la Shoah una faccenda esclusiva di svastiche e inferi. Gli europei non vedono l’ora di liberarsi di una vergognosa storia antica e, ora che la memoria sbiadisce, è diventata materia per pochi (Edith Bruck e Liliana Segre per esempio), oppure chincaglieria a colori pastello, chiamare nazista lo stato di Israele e genocida la sua guerra è il modo perfetto per mettere tutto in pari: cari ebrei, voi fate agli altri quanto fu fatto a voi; dunque, che volete?

Due anni dopo, il disastro (umanitario e politico) di Netanyahu è conclamato e senza sbocco: le bandiere del suo paese escluse dalla piazza pacifista di una forza con ambizioni di governo e fondate su un’unanimità raggiunta per tre quarti sull’uso della parola genocidio, che fino a pochissimi mesi fa era esclusiva delle manifestazioni antagoniste ed extraparlamentari. A me tutto questo terrorizza. E mi tocca ripetere per la millesima volta che il genocidio fu espressione giuridica per dare sostanza a un rilievo di Winston Churchill dopo la Seconda guerra mondiale: non esiste nemmeno la parola per definire quello che hanno fatto i nazisti, disse. Ovvero una caccia internazionale, con l’entusiastica collaborazione degli indigeni, e con l’obiettivo di ridurre in cenere ogni ebreo d’Europa, e ripulirla secondo gli obiettivi della Soluzione finale. Questo è il genocidio. E nulla toglie all’orrore di Hiroshima e Nagasaki (leggete Pioggia di distruzione, libro raggelante di Richard Overy appena uscito per Einaudi), ma Hiroshima e Nagasaki non sono genocidio.

Ancora di più mi sbalordiscono ex leader della sinistra come Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, per i quali non val la pena perdersi in sofisticherie lessicali: chiamatela come volete, sempre mostruosità è. Una parola vale l’altra? Detto da gente cresciuta nel Pci, in cui si insegnavano approcci meno dozzinali, è sconsolante. Le parole non sono tutte uguali. Se esistono parole diverse, è perché illustrano concetti diversi. Un conto un è genocidio, un conto pulizia etnica, un conto crimine di guerra. Se si usano le parole sbagliate è perché si sta facendo l’analisi sbagliata. E l’analisi sbagliata porta a una piazza con le bandiere palestinesi ma senza le bandiere israeliane. 

di  Mattia Feltri su HuffPost

 

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