«Non ammettere i ricorsi per il numero di battute è rinnegare il diritto di difesa»
L’intervento del presidente del Cnf Franceso Greco alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario e di presentazione della Relazione sull’attività della Giustizia amministrativa.
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Il Consiglio Nazionale Forense rappresenta la professione che. secondo l’articolo 2 comma 2 della legge 247/2012 “ha la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti”. Se questa è la missione dell’Avvocatura, non posso non cominciare questo intervento dal tema dei limiti alla lunghezza degli atti difensivi e dell’incidenza delle norme conferenti sulla difesa, richiamata dall’articolo 24 della Costituzione come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Di qualunque procedimento, mi permetto di aggiungere.
Come noto, l’art. 13-ter, co. 2, dell’allegato II al codice del processo amministrativo, al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio, in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza, dispone che le parti redigano il ricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Decreto che è stato adottato nel dicembre 2016 e che prevede, all’art. 3, co. 1, lett. b), per i ricorsi ordinari, il limite massimo di 70.000 caratteri. L’art. 13-ter, co. 5 dell’allegato II al Cpa dispone: “Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”.
Sappiamo che è possibile superare i limiti chiedendo un’espressa autorizzazione al Giudice. Tale forma di difesa “concessa”, non posso esimermi dal rilevare, suscita già non poche perplessità, proprio in relazione al contenuto del richiamato articolo 24 Cost., che non prevede compressioni o autorizzazioni da parte del Giudice nell’esercizio del diritto di difesa. Non è da Stato di diritto prevedere che il difensore debba chiedere autorizzazione su come e su quanto difendere il proprio assistito. Ma non è solo questo il punto.
Alcune pronunzie del Giudice amministrativo interpretano la predetta previsione dell’art. 13 ter del Cpa nel senso che “(…) tale previsione non lascia al giudice la facoltà di esaminare o meno le questioni trattate nelle pagine successive al limite massimo, ma, invece, in ossequio ai principi di terzietà e imparzialità, obbliga il giudice a non esaminare le questioni che si trovano oltre il limite massimo di pagine” (Cons. Stato, sez. V, 22 settembre 2023, n. 8487). Interpretazione da cui, in alcune pronunce, è stato fatto conseguire un principio di inammissibilità del ricorso qualora le conclusioni siano state formulate oltre le 70.000 battute, sostenendosi che il superamento del limite delle battute sarebbe questione di rito afferente l’ordine pubblico processuale (…).
Pur condividendo la rilevanza del principio di sinteticità, il Consiglio Nazionale Forense ritiene che le riferite interpretazioni rechino gravi limitazioni al diritto di difesa. Accanto al principio-valore di sinteticità, vanno infatti tenuti presenti altri principi, che dovrebbero indurre ad un bilanciamento, nel quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata. Si pensi all’articolo 112 cpc, applicabile anche al rito amministrativo, in forza del quale il Giudice si deve pronunciare “su tutta la domanda”. Il rispetto del limite di pagine non può assurgere a presupposto di dichiarazione di inammissibilità della domanda di giustizia.
La norma di cui si discute non contiene una espressa delibazione di inammissibilità delle argomentazioni introdotte nelle pagine eccedenti il limite e, conseguentemente, non può che valere la disciplina generale di cui all’art. 3, co. 2 Cpa, che rivolge il monito alle parti e al giudice di redigere gli atti del giudizio in maniera chiara e sintetica, senza fissare alcuna automatica sanzione. Il richiamato art. 13-ter, comma 5 dell’allegato II al Cpa, deve essere interpretato in una direzione coerente con il diritto costituzionale di difesa e del diritto al giusto processo.
La disposizione, al più, potrebbe essere intesa nel senso che il Giudice deve valutare, di volta in volta e in concreto, se la violazione dei limiti costituisca un comportamento elusivo del principio di sinteticità o se invece il superamento dei limiti sia necessario perché funzionale alla tutela della posizione processuale della parte. Nessun automatismo, dunque, ma valutazione caso per caso, tenendo conto che anche quando vi è una violazione del limite di battute non può essere pronunciata l’inammissibilità del ricorso, ovvero il sacrificio totale della domanda di giustizia del cittadino. Auspichiamo che questa interpretazione prevalga nella giurisprudenza, perché sono in gioco diritti e interessi dei cittadini alle prese con un’amministrazione pubblica, il cui corretto o efficiente agire è proprio l’oggetto del processo amministrativo, in cui una valutazione meramente aritmetica del numero di battute finisce persino per svilire la stessa funzione del processo amministrativo.
(…) Nonostante i carichi ingenti sopra ricordati, dobbiamo dare atto alla Giustizia amministrativa italiana di avere lavorato molto e bene. L’opera di smaltimento delle pendenze sta procedendo celermente. Tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare che il ricorso alle udienze da remoto deve essere uno strumento utilizzare con prudenza, per evitare eccessivi sacrifici del diritto al contraddittorio o, peggio ancora, pronunzie sbrigative di rigetto o inammissibilità, laddove l’obiettivo dello smaltimento non può sostituirsi alla esauriente cognizione delle difese, al fine di una corretta decisione.
Resta, inoltre, ancora aperta la questione dei costi di accesso alla giustizia amministrativa, con contributi unificati che, per talune materie e in taluni casi, si ispirano a discutibili strumenti di deflazione del carico giudiziario. Non è ammissibile in un ordinamento democratico che cittadini e imprese debbano rinunziare alla tutela dei propri diritti e dei propri interessi legittimi, perché scoraggiati o, peggio, impossibilitati ad affrontare il costo per accedere al Giudice.
(…) Infine non posso non segnalare, con allarme, un certo indirizzo formatosi in materia di tutela dell’equo compenso dei professionisti, laddove è stato ritenuto legittimo da parte di una P.A. l’affidamento di incarichi professionali a titolo gratuito in quanto – si legge nella motivazione – “la normativa sull’equo compenso sta a significare soltanto che, laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba necessariamente essere equo, mentre non può ricavarsi dalla disposizione (l’ulteriore e assai diverso corollario) che lo stesso debba essere sempre previsto” (v. Consiglio di Stato, sez. V, n. 2084/2023).
L’intervenuta revisione organica della materia dell’equo compenso, ad opera della legge n. 49/2023, non prevede eccezioni o regimi speciali per la pubblica amministrazione e rende pienamente operativo il diritto all’equo compenso, non solo di fronte ai “clienti forti” privati (banche, assicurazioni, e grandi imprese) ma anche di fronte alla pubblica amministrazione.
Riportiamo di seguito un ampio stralcio dell’intervento che il presidente del Cnf Francesco Greco ha pronunciato alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario e di presentazione della Relazione sull’attività della Giustizia amministrativa.
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