La fragilità delle analisi di Francesca Albanese sulla questione israelo-palestinese
Le tesi della relatrice speciale delle Nazioni Unite si fondano su fonti parziali e omissioni rilevanti, rivelando i tanti punti deboli di un incarico che dovrebbe esigere imparzialità e precisione.
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La locandina di un convegno organizzato dal Consiglio Nazionale Forense su «Le violazioni dei diritti umani a Gaza e nei territori occupati» (evidentemente la massima istituzione degli avvocati italiani ritiene che altrove vada tutto benissimo), in cui ospite d’onore è l’ormai notissima Francesca Albanese, «relatrice speciale Onu per i territori occupati dal 1967», spinge a qualche considerazione sui meccanismi di qualche inopinata quanto misteriosa fortuna mediatica.
Francesca Albanese è teorica dell’accusa di genocidio a carico di Israele in relazione all’invasione di Gaza, che ella ritiene l’attuazione di un premeditato piano di sterminio risalente addirittura al ’47 (prima guerra arabo-israeliana), equiparabile allo sterminio dei nativi americani al tempo del selvaggio West. Potrà sostenere nella prestigiosa sede dell’avvocatura le sue tesi, consacrate in un apposito rapporto consultabile sul sito della rivista Sistema Penale, in assenza di totale contraddittorio, giacché l’altra relatrice, l’avv. Barbara Spinelli, da non confondere con la nota giornalista figlia di Altiero, la pensa legittimamente allo stesso modo. Forse sarebbe stato opportuno estendere l’invito a qualche altro autorevole interlocutore (penso ad esempio al prof. Marcello Flores, studioso di fama internazionale, autore di un importante saggio sul genocidio armeno, o al prof. Bernard Bruneteau che ha scritto “Il secolo dei genocidi”, di cui abbiamo parlato qui).
La scelta di far parlare delle sue teorie la sola «relatrice speciale» Albanese è una precisa scelta di campo che non si addice a chi, come gli avvocati, predica il contraddittorio ed è anche piuttosto singolare alla luce di un infortunio in cui la nota giurista è incorsa, attribuendosi l’erronea qualifica di «avvocata e mediatrice internazionale», che non le compete perché non ha mai conseguito il titolo di avvocato. Il codice deontologico forense sul punto è molto severo, ma è comprensibile che, pur di godere di un intervento di così alto prestigio, si possa sorvolare su una simile quisquilia.
Francesca Albanese non si è scusata (non è usa, come si ricava da una sua piccata risposta a Goffredo Buccini), ma ha detto che lei si riferiva al termine «advocate» (che vuol dire altro). Comunque ha sfoderato un certificato di compiuta pratica forense, purtroppo non sufficiente a fregiarsi del titolo, che ancora compare sul sito della casa editrice del suo saggio eloquentemente intitolato “Dalla economia dell’occupazione alla economia del genocidio”.
Sulla piattaforma Academia.edu si definisce ancora oggi «International lawyer, with a specialization in human rights and refugee issues in the Arab world.» Lawyer, non advocate. Il suo profilo su Wikipedia rivela che «ha completato i suoi studi universitari in giurisprudenza presso l’Università di Pisa e il master con specializzazione sui diritti umani presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Inoltre, dal 2020 sta svolgendo un dottorato di ricerca in diritto internazionale dei rifugiati presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Amsterdam».
Il 2020 (anno disgraziato del Covid per gran parte dell’umanità) risulta essere un anno di svolta per la giurista, in quanto, come si desume da Google Scholar, oltre al conseguimento del dottorato di ricerca pubblica insieme allo studioso olandese Lex Takkenberg la riedizione di un saggio di questi, già pubblicato col solo nome del primo nel ’98, “Palestinian Refugees in International Law”, edito dalla prestigiosa Oxford University Press.
A distanza di soli due anni da dottorato e libro sui palestinesi, Francesca Albanese viene nominata relatrice speciale per i territori occupati. Una carriera che si può definire fulminea.
Nel saggio, legittimamente, Francesca Albanese sciorina il suo convincimento che a Gaza si stia perpetrando un feroce genocidio. Individua tre precise condotte (su nove) che, secondo la convenzione sui genocidi del ’48, integrerebbero la fattispecie (uccisione di membri del gruppo, inflizione di gravi danni fisici e mentali, inflizioni di condizioni di vita calcolate per portare il gruppo all’estinzione) e da essa desume la volontà dello Stato di Israele di perpetrare il genocidio palestinese.
Opinione legittima, e certamente il governo di Benjamin Netanyahu si è reso responsabile di atroci crimini contro l’umanità che dovrebbero cessare e portare a processo il leader israeliano. Sia permesso solo sottolineare che, sulla configurazione del genocidio, gli studiosi come Bernard Bruneteau e Marcello Flores richiedono prove precise sull’esistenza di un piano preordinato, come fu quello varato a Wannsee dai nazisti nel ’42.
Il tempo, le inchieste e gli studi seri, approfonditi e imparziali ci diranno. Oggi sembra prematuro, e ciò non deve apparire una minimizzazione dell’orrore, quanto un legittimo interrogativo sui motivi per cui alla ferocia della guerra taluno risponda con l’odio verso un popolo e un paese cui si attribuisce la responsabilità morale dei crimini dei governanti. Cosa dovrebbero dire i popoli vittima del fascismo del silenzio complice degli italiani per venti anni?
Con somma sorpresa si legge nel saggio che le radicali conclusioni del lavoro di Francesca Albanese non sono frutto di una indagine sul campo, ma «su dati e analisi di organizzazioni attive sul campo, giurisprudenza internazionale, rapporti investigativi e consultazioni con persone colpite, autorità, società civile ed esperti». Lei a Gaza non si è recata, perché vietatole da Israele. Sia.
In realtà, tra le fonti principali e ricorrenti vi sono articoli di giornali e rapporti Onu. Non è dato sapere, e sarebbe interessante appurare, se la «relatrice speciale» si sia mai recata nei territori occupati su cui avrebbe dovuto riferire all’Onu, neanche nell’anno abbondante intercorso tra la sua nomina e l’invasione di Gaza.
Non solo, ma sorprende anche il paragrafo dedicato a «La Palestina e il contesto storico». Scrive Francesca Albanese che «in Palestina lo spostamento e la cancellazione della presenza della popolazione araba indigena è stata parte inevitabile della formazione di Israele come «Stato ebraico» (tra virgolette, il che sembra sottolineare l’identità tra ebreo e volontà di sterminio). Ancora, «pratiche di eliminazione che hanno portato alla pulizia etnica di massa della popolazione «non ebraica» (ancora!) si sono verificate dal ’47 al ’49».
Sia consentito osservare che un lavoro con pretesa di scientificità, addirittura pubblicato sul sito di una prestigiosa rivista giuridica, non può riportare affermazioni così grossolane, omettendo di riportare fatti storici decisivi come la Risoluzione Onu 181 del ’47, che riconosceva l’esistenza di due Stati, rifiutata in blocco dai paesi arabi, e il fatto che dal 1947 al 1973 Israele abbia subito guerre di aggressione dai paesi arabi. Sia consentito dire che non è serio ignorare la storia di Israele, del sionismo laburista, l’assassinio di Rabin, i patti di Oslo. Dal rapporto della relatrice emerge ostilità non verso un governo, ma verso lo «Stato ebraico», come eloquentemente viene definito.
Certamente Francesca Albanese è in buona fede e mossa esclusivamente dalla pena verso l’inaccettabile condizione palestinese e non da altri scopi di carriera o fama personale a buon mercato, ma è da chiedersi a cosa serva una simile visione di una tragedia in atto, che ha radici lontane e che richiede visione lunga e senso della storia. È a questo che serve l’Onu oggi? A maledire lo «Stato ebraico»?
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