Anno: XXV - Numero 72    
Venerdì 26 Aprile 2024 ore 13:00
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Le Casse di Previdenza e la responsabilità sociale della finanza

Elena Beccalli, Preside della Facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative, Università Cattolica del Sacro Cuore, ha scritto un’interessante riflessione sulla responsabilità sociale della finanza.

Le Casse di Previdenza e la responsabilità sociale della finanza

«L’interrogativo sulla legittimazione sociale dell’esistenza di un business è il fondamento logico di un ripensamento del significato del concetto stesso di valore e creazione di valore, a lungo inteso come creazione di rendimenti per i soli azionisti spesso con un orizzonte di breve termine. È una concezione questa che ha mostrato i suoi limiti  già con la crisi globale del 2007 e ancora oggi con la pandemia. Il nuovo concetto di valore poggia su una proposta di valore sociale, che sottende un riorientamento nel modo in cui i manager sono chiamati a dare priorità alla loro responsabilità nei confronti della società. La tutela sociale non deve essere intesa in contrapposizione all’efficienza, alla reddittività e alla solidità del business della banca. Questi aspetti economici, fondati sull’erogazione del credito a prenditori che siano in grado di restituire quanto ricevuto, sono il presupposto di un business attento alla tutela sociale».

«La finanza sociale è l’insieme dei processi, degli attori, degli strumenti finanziari a disposizione delle iniziative in campo sociale, siano esse non profit o for profit» (Fondazione Sodalitas 2015:6).

 «È dunque necessario specificare cosa si intenda con l’espressione “sociale”; esistono, da questo punto di vista, due approcci differenti: quello europeo (e, in particolare, italiano), che fa rientrare nel “sociale” le organizzazioni del terzo settore; quello anglosassone, che si concentra invece sulle ricadute dell’intervento finanziario, indipendentemente dalla forma giuridica del soggetto che ne beneficia, e considera dunque “sociali” le operazioni finanziarie che indirizzino debito o equity ad imprese che producano beni che incorporano un valore per la comunità. Inoltre, proseguendo nel parallelismo tra le due visioni, mentre la concezione anglosassone della finanza sociale privilegia l’iniziativa individuale di un social entrepreneur (spesso proveniente dall’economia tradizionale), il modello europeo tende a incoraggiare la capacità delle comunità di individuare delle risposte ai propri bisogni e di organizzare collettivamente le unità produttive destinate a farvi fronte (Bellanca, Pierri 2011:1,3). Nel caso degli obiettivi di questo lavoro, ovvero indagare il ruolo degli investimenti a impatto sociale nella fornitura di mezzi finanziari alle imprese sociali, risulta utile rifarsi all’approccio europeo, per due motivi: innanzitutto, le imprese sociali costituiscono il versante “produttivo” del non-profit, e quindi rientrano in questo settore; inoltre, questa forma giuridica privilegia la democraticità e la partecipazione allargata alle decisioni, e si discosta quindi dall’idea anglosassone di imprenditore sociale come “uomo solo al comando”. Ciò detto, va sottolineato come gli investimenti a impatto sociale (che costituiscono un sottoinsieme della finanza sociale) siano stati ideati nel contesto anglosassone: l’attenzione alla misurazione e rendicontazione dei risultati sociali degli interventi finanziati si avvicina infatti maggiormente alla concezione di “sociale” consolidata in questi paesi, secondo cui conta più il “cosa fai” del “chi sei”. L’attenzione crescente dedicata alle potenzialità della finanza sociale si lega alle tematiche trattate nel capitolo 1, ovvero la crisi dei sistemi di welfare nei paesi avanzati e la rimodulazione della progettazione ed erogazione dei servizi pubblici in senso partecipativo, con particolare riguardo al contributo delle organizzazioni della società civile. Come si è detto, alle problematiche di sostenibilità della spesa pubblica e di capacità di risposta alla mutevole domanda di servizi di welfare, si è cercato di ovviare attraverso il passaggio a un modello di stato sociale che promuova l‘“empowerment” dei cittadini. Da ciò segue anche un diverso modo di considerare la spesa sociale: da “costo” per riequilibrare le disuguaglianze attuali a “investimento” nel futuro. Infatti, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati e dell’elevato debito pubblico degli stati, è diventato sempre più difficile far fronte alle necessità dello stato sociale attraverso le risorse pubbliche. La globalizzazione, inoltre, ha accresciuto la competizione tra le economie anche per ciò che riguarda i livelli di tassazione, rendendo poco indicata la scelta di aumentare la pressione fiscale per finanziare ulteriori incrementi di spesa pubblica. La finanza sociale si propone di contribuire alla copertura finanziaria delle spese sociali attraverso l’impiego di capitali privati. I destinatari principali di tali investimenti sono le imprese sociali, che operano nel mercato con una mission sociale. Le risorse aggiuntive che arriveranno all’imprenditoria sociale consentiranno l’effetto leva (“leverage”), ovvero l’espansione della dimensione e dell’ambito di operatività. A tal proposito, è opportuno fare una precisazione: la finanza sociale è mirata alla fornitura del cosiddetto “capitale di investimento”, cioè quello necessario a costruire capacità organizzative di lungo periodo attraverso l’investimento in strutture, attrezzature, servizi, competenze; non invece a coprire le necessità di “capitale operativo” o “capitale circolante netto”, che è quello utilizzato per far fronte ai costi di produzione (http://secondowelfare.it/finanza-sociale/entropia-degli-strumenti-di-finanza-sociale.html). Dunque, le imprese sociali che scontino cronici problemi di liquidità non possono sperare nell’aiuto della finanza sociale, che invece si rivolge a enti che si dimostrino già in grado di svolgere in maniera efficace ed efficiente le loro iniziative, dando loro accesso a risorse aggiuntive che consentano di “scalare” il servizio. Da questo punto di vista, gli investimenti sociali si ricollegano anche al concetto di “innovazione sociale”, che consiste nell’insieme di nuove pratiche, metodi, processi che sono sviluppati e/o adottati da cittadini, utenti e classe politica al fine di soddisfare i bisogni e di risolvere le sfide sociali in modo migliore rispetto alle pratiche esistenti (Nicholls, Simon, Gabriel 2015:31). L’innovazione sociale può essere considerata la risposta ai fallimenti del mercato nella fornitura di servizi sociali (INNOSI 2015:23); dunque, gli investimenti sociali sono naturalmente destinati alla promozione e al sostegno di iniziative innovative in ambito di welfare. Si tratta di un ruolo di prima importanza, considerando che i mercati finanziari tradizionali sono afflitti da selezione avversa: gli operatori tendono infatti ad investire in progetti consolidati e sperimentati nel tempo, che si rivolgano alla domanda solvibile già esistente sui mercati, piuttosto che andare incontro ai bisogni dei soggetti emarginati e cercare di far emergere la domanda inespressa (Bellanca, Pierri 2011:4). Il compito principale della finanza sociale è quello di «allargare il sostegno ad alcune tra le innovazioni imprenditoriali che sarebbero scartate dalla banca e dalla finanza tradizionali […] la finanza sociale raccoglie risorse su mercati non tradizionali per offrirle a categorie di imprenditori innovativi che non le riceverebbero, o che vi avrebbero accesso a condizioni proibitive, da parte della finanza tradizionale» (Bellanca, Pierri 2011:4-5). Ciò detto, è opportuno evitare di cadere nell’eccessiva semplificazione che rappresenta la finanza sociale e quella tradizionale come due mondi contrapposti, agli antipodi. Infatti, le “regole del gioco” (in particolare per quanto riguarda il rapporto rischio-rendimento) valgono in entrambi gli ambiti (Del Giudice 2015:19): la valutazione del rischio e la determinazione del rendimento atteso da un lato aiutano nella selezione dei progetti, evitando di finanziare in assenza di risultati misurabili qualsiasi iniziativa che si presenti come “finanza sociale”; dall’altro, accrescono l’interesse degli investitori. Essendo l’andamento dell’economia sociale decorrelato da quello del resto delle attività tradizionali (a causa della crescita della domanda di assistenza sociale nei periodi di crisi economica), l’investimento in questo tipo di iniziative può costituire un’opportunità interessante in termini di diversificazione del rischio. Le dimensioni del mercato sono ingenti: solo per l’Italia, il gap tra domanda di welfare e risorse disponibili è stimato in 30 miliardi di dollari entro il 2015 (Accenture, 2013). Per identificare l’insieme degli investitori sociali, delle imprese sociali e di tutti gli stakeholders che partecipano, influenzano o sono coinvolti dalle iniziative di finanza sociale, è stata coniata l’espressione “social finance/investment ecosystem”, cioè “l’ecosistema della finanza/dell’investimento sociale”. Una rappresentazione dell’ecosistema italiano della finanza sociale è stata proposta dalla Fondazione Sodalitas, nel quaderno “Introduzione alla finanza sociale”» (Il ruolo degli investimenti ad impatto sociale nel finanziamento dell’impresa sociale, di Alberto Boschian Bailo).

 

Perché le Casse di previdenza con il loro patrimonio non investono nella finanza sociale?

Sarebbe un modo per coprire una richiesta che avrà dimensioni sempre più importanti così da garantire un rendimento sicuro ai propri iscritti.

 

Confrontandomi con un mio grande amico, esperto in finanza di cui ovviamente non faccio il nome non avendo bisogno di pubblicità, sull’approfondimento della Preside Elena Beccalli mi scrive: «Buongiorno e buon anno, Paolo carissimo! Spero la salute sostenga al meglio il tuo pregiato acume. Sul tema sarò caustico. La finanza è come la prostituzione: tutti la condannano, ma esiste da quando l’uomo si è organizzato in comunità e nessuna comunità nel mondo potrà mai farne a meno …» E io rispondo subito: «Ciao Grande, sai che condivido. Ma io sono per il ritorno alle case chiuse, gestite e organizzate dallo Stato».

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