Anno: XXV - Numero 72    
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Covid-19, su uso delle mascherine in ospedale c'è disaccordo.

Ecco le posizioni a confronto

Covid-19, su uso delle mascherine in ospedale c'è disaccordo.

C’è chi le considera ormai parte di sé e chi anche nei luoghi più affollati non le indossa. La mascherina è stato il simbolo della lotta alla pandemia Covid, ma ora che resta obbligatoria solo in ospedale e nelle Rsa, il suo utilizzo fa discutere. «Da 6 mesi non indosso la mascherina, neppure in ospedale. Qualcuno mi guarda male, non mi importa. Nel complesso oggi la mascherina è inutile come tante cose probabilmente inutili, ad esempio l’eccesso di tamponi, fatte in questi anni di delirio». Non ha dubbi sulla fine della pandemia Alberto Zangrillo, direttore della Anestesia-Rianimazione dell’ospedale San Raffaele di Milano, già coordinatore della seconda sezione del Consiglio superiore di sanità, intervistato dal ‘Corriere della Sera’. «La mascherina in ospedale è ancora obbligatoria e dovrebbe esserlo sempre, soprattutto in alcuni reparti, per gli operatori sanitari e chi visita i parenti ricoverati, indipendentemente dalla situazione Covid», sottolinea Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ospite di Radio Cusano Campus, replicando Zangrillo. «Nelle riunioni interne con i colleghi togliamo il bavaglio. È anacronistico. Giro a viso scoperto anche nei luoghi affollati, a meno che non siano frequentati da persone fragili», è il pensiero di Matteo Bassetti, infettivologo del San Martino di Genova. L’immunologo Sergio Abrignani, università Statale di Milano, ammette invece: «ne ho sempre due con me. Una nella tasca della giacca, l’altra nei pantaloni. E a seconda delle situazioni decido se e quale mettere, chirurgica o Ffp2».

Sarebbe un errore eliminare l’obbligo delle mascherine di ospedale, secondo Cartabellotta, perché «si tratta di un elemento che riduce la probabilità di venire a contatto con germi di qualunque natura. Senza dimenticare – aggiunge – che gli ospedali tendono a selezionare batteri di un certo tipo anche resistenti agli antibiotici». «Il Covid non è morto – chiosa – ma è ormai simile all’influenza. Abbiamo una circolazione endemica con 20-25mila casi a settimana, che al momento non destano preoccupazione. Anziani e fragili, però, dovrebbero continuare ad adottare precauzioni come l’uso delle mascherine sui mezzi pubblici o le vaccinazioni di richiamo». «Non c’è solo il Sars-Cov-2, circolano tanti virus e non voglio ammalarmi, in metro e in aereo mi proteggo», motiva la precauzione Abrignani. È quanto conferma anche l’immunologo Mauro Minelli, coordinatore per il Sud Italia della Fondazione per la medicina personalizzata, all’Adnkronos Salute, «tra i consigli in merito alla prevenzione per gli allergici, va riconsiderata l’idea dell’uso della mascherina per le gite fuori porta in campagna o in luoghi aperti», suggerisce l’immunologo. «La prima ondata di pollini, quelli cosiddetti prestagionali, capeggiati dal cipresso, si è già presentata nella seconda metà di gennaio. Tra qualche settimana verrà sostituito da un turnover di pollini più tipici della stagione primaverile, partendo da quelli della parietaria, poi delle graminacee e dell’ulivo. Fino all’anno scorso, la mascherina schermava l’impatto del polline e ne limitava il contatto con le vie respiratorie, attenuando anche i sintomi. Con la dismissione del dispositivo di protezione individuale, quest’anno si prevede un impatto dell’allergia maggiore».
Anche negli Usa i medici ammettono di utilizzare ancora il dispositivo di protezione. Rochelle Walensky, direttore dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive dell’Arizona, si maschera e fa il tampone prima di vedere i genitori anziani. Robert T. Shaooley, università di San Diego, si munisce di mascherina quando va al supermercato ed evita le ore di punta. William Shaffner fa la spesa ogni sabato mattina, all’alba, per non trovarsi nella ressa dello shopping: «Sono l’unico ad averla». Helene Gayle, presidente dello Spelman College non immagina un futuro senza di lei in aereo: «Fa parte del bagaglio». Nonostante ciò, Zangrillo è critico su quanto ci portiamo dietro dalla pandemia. «Sul piano del rapporto medico-paziente ci ritroviamo impoveriti – riflette – Durante le ondate di Covid sono venuti a mancare i punti di riferimento, la gente era spaventata e non trovava chi potesse prestare ascolto alle sue ansie», sottolinea lo specialista. «Ho passato mesi a rincuorare e informare», rivendica. «Abbiamo peccato dal punto di vista etico e morale – analizza Zangrillo – È venuto meno il prendersi carico del paziente che dovrebbe restare al centro della nostra professione. Sono mancati i servizi sul territorio, vicini alle persone. Non voglio parlare male dei medici di famiglia, alcuni dei quali – puntualizza – hanno lavorato benissimo. Però, non trovando ascolto, i cittadini hanno avuto come unico punto di riferimento i pronto soccorso». «Ci siamo dimenticati di curare le paure e i timori delle famiglie che hanno visto la nostra figura diventare impotente. Poi l’informazione spettacolarizzata ha fatto il resto». Il risultato è stato «un martellamento impietoso e quotidiano di notizie contrastanti, che ci ha fatto precipitare nel pessimismo».

Fonte Doctor 33

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