Anno: XXVI - Numero 122    
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Perché la previdenza complementare non funziona

«La previdenza complementare, disciplinata dal D.lgs. 5 dicembre 2005 n. 252, rappresenta il secondo pilastro del sistema pensionistico il cui scopo è quello di integrare la previdenza di base obbligatoria o di primo pilastro.

Perché la previdenza complementare non funziona

Essa ha come obiettivo quello di concorrere ad assicurare al lavoratore, per il futuro, un livello adeguato di tutela pensionistica, insieme alle prestazioni garantite dal sistema pubblico di base.

La previdenza complementare è basata su un sistema di forme pensionistiche incaricate di raccogliere il risparmio previdenziale mediante il quale, al termine della vita lavorativa, si potrà beneficiare di una pensione integrativa.

La posizione individuale del lavoratore risulta costituita dai contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro alla forma pensionistica complementare e dai rendimenti ottenuti, al netto dei costi, attraverso l’investimento sui mercati finanziari dei contributi stessi. Essa è ovviamente collegata, oltre che all’ammontare dei contributi versati e dei rendimenti ottenuti, alla durata del periodo di versamento.» (Fonte: Ministero del lavoro).

La configurazione attuale della previdenza complementare riflette però un modello “novecentesco” che perpetua le disuguaglianze e le segmentazioni esistenti, in particolare tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato.

Una recente audizione del Presidente della Covip alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio del 13 maggio 2025, ha offerto dati numerici importanti a sostegno della tesi qui esposta.

Alla fine del 2024, gli iscritti totali alla previdenza complementare sfiorano i 10 milioni, rappresentando circa il 36% delle forze di lavoro. 

Le dinamiche e le tendenze del mercato del lavoro e del tessuto economico del nostro Paese si riflettono anche nella previdenza complementare. Infatti, tra gli iscritti sono prevalenti gli uomini (61,7%) del totale, gli individui localizzati nelle Regioni settentrionali (57,1%), e coloro che appartengono alle fasce di età centrali ovvero più anziane, con minore partecipazione delle donne, collegate alle loro condizioni lavorative.

I lavoratori dipendenti sono la maggioranza mentre i lavoratori autonomi sono poco più di un milione.

Per quanto riguarda la contribuzione alla previdenza complementare, la media è di € 2.810,00 annui e, in termine di risorse accumulate dagli iscritti, il capitale medio pro-capite è pari a € 23.350,00.

Le scelte degli iscritti sono poi orientate prevalentemente su profili con una quota azionaria bassa o addirittura nulla.

Solo il 10,3% sceglie, infatti, linee di investimento con una quota azionaria superiore al 50%.

Siamo quindi di fronte a scelte conservative degli iscritti che non sono premianti sui mercati finanziari.

Gli iscritti poi preferiscono vedersi liquidare il risparmio previdenziale accumulato in forma una tantum, anziché essere trasformato in rendita vitalizia. L’insieme di questi fatti, in buona sostanza, impedisce alla previdenza complementare di assolvere alla funzione per la quale è stata istituita.

In un recente convegno su “I vantaggi fiscali dei fondi pensione alla prova dei numeri” il prof. Beppe Scienza, professore di matematica all’Università di Torino, numeri alla mano, ha contestato i vantaggi fiscali conseguenti agli investimenti nei fondi pensione perché i costi dei fondi pensione sui 35 anni sono mediamente 0,4% per i fondi chiusi, 1,2% per gli aperti e 1,8% per i PIP con la conseguenza che ricadono su un lavoratore costi superiori al beneficio fiscale, con un saldo negativo e, di conseguenza, la fiscalità non vale più come argomento a favore di fondi e PIP.

Secondo il prof. Scienza per trarre un sensibile vantaggio dalle agevolazioni fiscali, bisogna aderire alla previdenza integrativa pochi anni prima della pensione, ma non da giovani.

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