Al democristianesimo di Meloni il Pd risponde parlandosi addosso
Il fulcro predominante del Pd è l’incapacità di stare insieme.
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Con idee diverse. All’interno del partito si aprono discussioni eterne, inconciliabili, insanabili, mirate allo scopo finale che non è quello di fare gruppo ma di mandare a casa il segretario in carica
Paradossale, vero? Mentre Elly Schlein, pancia a terra, sta facendo una tirata campagna elettorale nel nome dell’unità del centrosinistra, una parte minoritaria del Pd, i cosiddetti riformisti, una particella delle dodici-tredici correnti che lo compongono, chiedono il dibattito, contestano la linea della segretaria, troppo spostata a sinistra, e vorrebbero uno spirito del partito più istituzionale, governativo. Insomma alla fine vanno sempre lì, la passionaccia per il Rearm EU, quello di Ursula von der Leyen e l’atteggiamento complessivo verso la guerra in Ucraina. Non proprio quello che aveva in mente Schlein che nel gruppo Pd a Strasburgo ha dieci posizioni diverse e nella sgangherata famiglia socialista europea ha il vincolo di sostenere le azioni di una commissione che poco ha da condividere con i rimasugli riecheggianti di Ventotene.
La politica estera è il discrimine nella composizione delle future coalizioni che andranno alle politiche del 2027. L’ultima uscita temporale è dell’ex presidente del Consiglio Gentiloni, già ministro degli Esteri e commissario europeo, il quale alla campagna elettorale per il Pd, vista la generosa lista di incarichi è evidente che quel partito gli ha dato un bel po’, preferisce scoprire l’acqua calda “i partiti di opposizione non sono pronti per vincere le elezioni e a diventare una vera alternativa all’attuale governo di destra guidato da Giorgia Meloni”. Lo afferma nei confronti di una segretaria che ha sacrificato il Pd nel nome dell’unità della coalizione e, vedi il caso, prima della direzione Pd che alcuni riformisti hanno disertato. Per protesta. Perché è la linea politica della segretaria Pd che non va. Perché, terra-terra, è la segretaria del Pd da sostituire. Il tiro al piccione è rimandato si va dopo le regionali che probabilmente se il Pd perderà sarà proprio per colpa di coloro (nelle Marche è candidato il riformista Matteo Ricci) che hanno preferito parlarsi addosso nel momento meno opportuno.
Nel Pd invece di fare nuove correnti, gruppuscoli, impercettibili centri studi, varie ed eventuali, per posizionarsi di fronte a future rendite di posizione e incarichi da barattare, se tutti questi, ma proprio tutti lavorassero esclusivamente per sostenere il partito e il suo leader, il destino, agli effetti finali, sarebbe foriero di grandi successi. Ma così evidentemente non è, non è stato se osserviamo lo storico recente, con un cambio impressionante di segretari. Il caso più eclatante rimane Matteo Renzi che dopo essere uscito dal Pd, aver fondato un nuovo partito, è ancora sotto tiri incrociati di quella classe dirigente che lui ha promosso, istradando alcuni in percorsi di incarichi prestigiosi, spesso non meritati.
Il nocciolo, il fulcro predominante del Pd è l’incapacità di stare insieme. Con idee diverse. Anche con le correnti. Che alla Dc hanno portato bene. Al contrario nel Pd si aprono discussioni eterne, inconciliabili, insanabili, mirate allo scopo finale che non è quello di fare gruppo ma di mandare a casa il segretario in carica. C’è da dire consapevolmente che Stefano Bonaccini, riferimento della minoranza interna al Pd, presidente del partito sta dando prova apprezzabile di come si può stare dentro il Nazareno senza fare casini nei momenti più delicati. Fa campagna elettorale e sostiene a braccia larghe Schlein, senza frapporre ostacoli. È quel sano centralismo democratico emiliano-romagnolo che c’era nel Pci e che ha permesso di tenere in quella regione primati elettorali invidiabili.
Nessuno qui è cieco di fronte alla realtà. Ho scritto per primo che così messo il centrosinistra vedrà con il binocolo la vittoria elettorale alle politiche del 2027. Ma poco o nulla è da imputare a Schlein. Che gli osservatori dicono aver spostato l’asse a sinistra, senza il centro che è da costruire, che ci vuole qualcuno che lo costruisca, meglio se sarà quel qualcuno il leader della coalizione, è il parere non troppo nascosto di chi propone questa cura.
Schlein ha affermato che il capo della coalizione verrà scelto dai partiti che ne faranno parte. Sarebbe meglio puntualizzare, intanto che è presto. La competizione tra i partiti alleati ci deve essere in campagna elettorale, per il leader da ora basta stabilire che guiderà il governo il segretario del partito che prenderà più voti. Che prima, però, occorre prenderli. Su una proposta politica che porti gli elettori alle urne. Un problemone. Perché nel corso degli anni si è usurato, in sfiducia, il ‘prometto e poi mantengo’. Si veda Giorgia Meloni. Una volta arrivata a Palazzo Chigi si è democristianamente uniformata a un modello di gestione amministrativa standard che sempre più è coricata sui modelli di Bruxelles e dai quali esce un misero naif. E, infatti, Meloni gira, vede gente, si butta sull’Ucraina ma quello che potrà offrire agli elettori sarà la sola stabilità di governo (addirittura dovrebbe accendere un cero al governo Conte di centrosinistra perché è grazie al PNRR se il Pil scosta un po’ al rialzo). Basterà quando intorno i salari non aumentano, le bollette sono alle stelle, la sicurezza è traballante, l’immigrazione è fuori controllo, la guerra in Ucraina, che costa parecchio alle tasche degli italiani, è stata condotta dall’Europa in un vicolo cieco? Non di centro o aplomb istituzionale di governo ha bisogno il campo largo, di quella roba lì c’è già tutto, provata e riprovata, ma di credibilità, di rispondere alle promesse. E non ci sono vincoli di Bruxelles che tengano. Nemmeno le scusanti che di fronte al pericolo russo c’è da riempire i granai di bombe e bombette.
di Maurizio Guandalini su Huffpost
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