Il no alla fascia tricolore somiglia a un no all’integrazione
Il gesto della sindaca di Merano, Katharina Zeller, misconosce la lungimiranza della politica repubblicana dopo il disastro della Grande guerra e del fascismo
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È una regola immateriale, ma è inesorabile: nella vita pubblica ci sono piccoli gesti – ma altamente simbolici – che se li fai, si fissano lì, per anni, per decenni, in alcuni casi per sempre. Difficile immaginare per quanto tempo, in Alto Adige e nel resto d’Italia, resterà impresso nella memoria il gesto di Katharina Zeller, nuova sindaca di Merano, che appena indossata la fascia tricolore, se l’è sfilata infastidita: “Mettiamola via, dai”, ha detto al suo predecessore, mentre una telecamera – oramai sono ovunque – fissava la scena. Qualche ora dopo Zeller si è corretta: “Non è un gesto di disprezzo, indosserò la fascia in tutte le circostanze previste”.
Ripensamento tempestivo che non cancella quella breve sequenza-video e non la cancella perché il gesto istintivo di Zeller aveva attinto ad uno di quei sentimenti sottopelle che una classe dirigente degna di questo nome deve stare attenta a non massaggiare. In questo caso il sentimento risvegliato è quello di tanti altoatesini, che giustamente sentono vive e indelebili le radici tirolesi e che vivono la propria italianità in modo molto diverso da un milanese o da un romano.
L’integrazione degli altoatesini nella Repubblica italiana è stato un miracolo realizzato grazie a una classe politica che ha saputo agire, letteralmente, da classe dirigente: dal 1945 ha saputo indirizzare, faticosamente, la propria comunità verso una direzione inizialmente sgradita a larga parte della popolazione.
Ecco perché Zeller avrebbe fatto meglio a non togliersi la fascia: non in omaggio al politicamente corretto, ma come rispetto per la sagacia di tanti sindaci sudtirolesi, di tanti leader della Svp che per decenni hanno silenziosamente condiviso atti e gesti interiormente vissuti come innaturali ma compiuti perché in quel modo condividevano una scommessa: l’integrazione come scelta migliore per consentire di vivere la miglior vita possibile agli altoatesini che si sono ritrovati da questa parte del Brennero.
Aver trasformato l’Alto Adige in un modello di integrazione indicato come esempio dall’Onu è stata un’impresa faticosa, costosa umanamente e politicamente. Perché l’Italia del 1945 si è trovata a dover sanare due strappi laceranti: l’annessione da parte italiana nel 1918 di popolazioni e territori di lingua tedesca e venti anni dopo le brutalità del fascismo. Quella del 15-18 era stata una guerra feroce, che si era consumata in un corpo a corpo tra trincee ravvicinate, così tanto dolore e così tanti sacrifici umani che spinsero l’Italia ad andare “oltre” nelle rivendicazioni territoriali, annettendo territori di lingua tedesca, compreso il futuro Alto Adige. Mussolini andò ancora oltre: con le cosiddette opzioni, indusse decine di migliaia di persone a migrare verso la Germania del Terzo Reich. Alla fine della Seconda guerra mondiale la sagacia politica di Alcide De Gasperi e dei suoi successori ha trasformato l’Alto Adige in un prototipo. Uno dei capolavori della Prima Repubblica.
Pochi giorni fa le immagini dal Foro Italico di Jannik Sinner – osannato dai romani come uno di loro, sicuramente come un italiano doc – sembravano aver chiuso anche simbolicamente l’annosa questione della riluttanza sud-tirolese, ma il gesto di Katharina Zeller conferma quel che Sigmund Freud capì meglio di tutti: “Gli istinti sono esseri mitici. Grandiosi nella loro indeterminatezza”. Riaffiorano quando meno te lo aspetti.
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