Al Terzo polo resta una sola cosa da fare: rassegnarsi
La ricerca del federatore - Rutelli o Gentiloni o Sala - è vana finché ci saranno Calenda e Renzi. Soprattutto, il né di qua né di là non funziona (se non sono riusciti a togliere voti nemmeno a Tajani) perché insegue un’Italia che non esiste.
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Nella “hit parade” dell’inconcludenza politica domina, per distacco, la riforma elettorale. Ma subito dopo, nella classifica del superfluo, segue il dibattito sul Terzo Polo: inutile perché non porterà da nessuna parte. L’ultimo passatempo mediatico consiste nella caccia al Federatore, cioè al personaggio autorevole, al volto noto e da tutti apprezzato, che dovrebbe rimettere insieme i cocci dopo la disfatta alle Europee. È circolato il nome di Francesco Rutelli, il quale però se ne tiene alla larga (vedi sulla Stampa l’intervista di Paolo Festuccia). Altri s’illudono che, conclusa l’esperienza di Commissario a Bruxelles, Paolo Gentiloni non trovi di meglio da fare che mettere pace nell’area più litigiosa al mondo, Medio Oriente compreso. Idem per Giuseppe Sala, quando smetterà di fare il sindaco a Milano, tra un paio d’anni. L’ultima stupefacente suggestione si chiama Carlo Cottarelli, esperto di conti pubblici, il quale dovrebbe cambiare ginepraio e non si capisce perché.
L’idea di azzerare, di far piazza pulita per ripartire con nuovi leader suona bene. Sarebbe senz’altro la premessa ideale. Finché Carlo Calenda e Matteo Renzi occuperanno la scena, nessun Terzo Polo sarà mai possibile perché l’unica vera finalità che accomuna entrambi consiste nel farsi fuori a vicenda, è la loro ossessione reciproca. Perfino dopo la disfatta elettorale, Carletto e Matteo hanno continuato a beccarsi, “tutta colpa tua, no tua”, come tra i banchi dell’Asilo Mariuccia: da far cadere le braccia. Ma quei due, piaccia o meno, non si faranno da parte, è illusorio sperarlo. O meglio: lo statista di Rignano sull’Arno per un po’ tirerà il fiato perché, tanto, torneremo a votare nel 2027, dunque potrà dedicarsi con tutto comodo alle sue conferenze (tra l’altro remunerate) salvo riproporsi al momento opportuno; se Luigi Marattin, nel frattempo, si accollerà Italia Viva, per Renzi tanto di guadagnato.
Calenda, invece, non schioderà di un millimetro. Né ora né mai. L’idea che possa accogliere un Federatore dicendo “accomodati, ti cedo Azione!”, è fantapolitica pura. Ha qualche malanno fisico da sistemare, dopodiché l’uomo ripartirà a testa bassa sentendosi l’unico predestinato, nel suo “mix” di qualità indubbia e presunzione acclarata. Insomma, per farla breve: né lui né Renzi sono contriti, tantomeno si sentono radioattivi per aver fallito il traguardo minimo del 4 per cento alle elezioni europee, sulla carta le più vantaggiose, tradizionalmente quelle dei voti “in libera uscita”. Spontaneamente non toglieranno il disturbo, questo è sicuro. Come il cane dell’ortolano, non mangiano l’insalata (e non la fanno mangiare agli altri). Ma la vera domanda da porsi è un’altra: se cacciarli ne vale la pena, se un Terzo Polo con alla testa Gentiloni o Cottarelli o Sala avrebbe qualche maggiore possibilità di farcela rispetto a Renzi e a Calenda. Qui sta il punto interrogativo, il nodo da sciogliere.
Per dirla con altre parole: sussiste il fondato dubbio che, al di là dei personalismi, non funzioni il progetto; che sia sbagliata l’idea alla base, quella di riunire i centristi riportandoli tutti sotto lo stesso tetto; e che proprio il concetto di centro, del “né di qua né di là”, del “mondo di mezzo”, del “luogo-non-luogo” abbia perso significato. In politica, come nella vita, non basta esprimere un desiderio: devono esisterne le condizioni reali. Nel caso del Terzo Polo manca il contesto adatto. Si afferma invece il bipolarismo, il mondo diviso a metà, la dialettica tra gli estremi che va forte ovunque (vedi, in Francia, che fine ha fatto Emmanuel Macron) e da noi in modo speciale. Perché Giorgia non ha soldi da spendere per ciò che serve all’Italia, in compenso è bravissima a scaldare gli animi, a dividere le coscienze, a risvegliare gli istinti. In gergo tecnico, Meloni “polarizza”.
Elly Schlein non è affatto da meno. La narrazione della sinistra è tutta improntata al rifiuto, allo sdegno, alla denuncia del Nuovo Fascismo, del regime alle porte con Viktor Orbán, i neo-nazi e compagnia bella. Il 25 aprile come lasciapassare democratico. Il povero Giacomo Matteotti brandito come una clava. Muro contro muro sulle riforme. Un nuovo radicalismo s’avanza implacabile, però non quello dei Radicali, anche loro scornati. È – per dirla volgarmente – la canizza della gente che fa il tifo, insulta, si ingaglioffisce. E non c’è nulla in grado di porre un argine: tanto più se passerà il premierato che significa buttarla sul personale e spostare l’attenzione dalle idee alle battute, alle smorfie, alle faccette, al teatrino quotidiano dei leader. La politica bipolare, ma in senso clinico.
Forse, anziché insistere col “terzismo”, invece di inseguire un’Italia che non è mai esistita, i liberal-democratici farebbero meglio a scegliere da quale parte stare, dove collocarsi ciascuno col suo 3 per cento (come suggerisce un pregevole post di Giorgio La Malfa su Il Commento Politico). E una volta fatta la scelta di campo, provare a farsi valere lì con pazienza. L’esempio? Antonio Tajani, sul quale nessuno avrebbe scommesso un soldo. Ha guadagnato voti collocando Forza Italia serenamente a destra. Calenda e Renzi non gli hanno rubato un solo elettore (che è tutto dire). E se non ci sono riusciti stavolta, dopo la morte del Cavaliere, non ci riusciranno mai più.
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