Serve un rilancio morale dell’avvocatura
L’attuale modello notabiliare è inadeguato
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I sei mesi trascorsi tra la sentenza della Cassazione e il comunicato stampa della Consulta possono anche essere letti come uno stress test sulla reattività delle rappresentanze forensi, chiamate a fronteggiare una situazione improvvisa -pur se non del tutto imprevista- e idonea a creare un conflitto tra il principio di legalità e l’interesse personale, anche legittimo. Anche il più benevolo osservatore deve prendere atto che la prova è miseramente fallita, soprattutto perché le decisioni sono state affidate, in massima parte, alla sensibilità individuale. Ci sono stati, è vero, quelli che subito dopo la sentenza, o dopo un momento di fisiologica assimilazione, hanno scelto il rispetto della legge; sono quelli da cui si può ripartire se, dopo una fisiologica pausa, avranno voglia di rimettersi in gioco con la coscienza pulita, offrendo un patrimonio di esperienza e di signorilità. Altri hanno gettato la spugna dopo l’approvazione del decreto legge o della legge di interpretazione autentica, cioè quando è parso chiaro che la politica non intendeva farsi carico nel problema (non, perlomeno, nel senso da loro auspicato). Altri hanno atteso la pronuncia della Consulta, spesso determinando incisive conseguenze politiche: penso a Ciraolo, che ha portato lo scontro a Messina a livelli quasi insostenibili, o ad Armando Rossi, che insistendo nella candidatura personale ha zavorrato un progetto politico non privo di interesse e che naturalmente si è sfasciato quando le urne hanno premiato chi era stato più fortunato, o più furbo, di lui. Altri sono andati avanti imperterriti; alcuni sembrano i giapponesi delle isole del Pacifico, ignari che la guerra è finita e l’Imperatore non è più Dio; per altri, c’è il rischio che ci vogliano i Carabinieri (metaforicamente, spero). Chi proprio non potrà ricandidarsi cercherà di mantenere il controllo del territorio in attesa di tempi migliori, in maniera pacchiana a Salerno o più subdola altrove (del resto la lista “d’area” è stata inventata da Mauro Vaglio quando la situazione capitolina gli ha suggerito di veleggiare verso Cassa Forense). E nel complesso l’Avvocatura si è mossa in ordine sparso, esattamente come nel 2015, fino ad arrivare a Fori che di rinvio in rinvio sforeranno il termine già abbastanza generoso concesso dal Ministero per mettere ordine nelle proprie cose. In un simile contesto, è inevitabile contare morti e feriti. Le prime, patetiche vittime sono le commissioni elettorali: ideate come organi di garanzia, si sono rivelate quasi sempre emanazione dei consigli uscenti, sulle cui posizioni si sono adagiati anche con la copertura di pareri compiacenti; quando poi la composizione della commissione lasciava prospettare una comunque imbarazzante decisione a maggioranza, si è preferito rilanciare la palla verso i consigli neoeletti -che naturalmente non hanno alzato un sopracciglio- sancendo l’assoluta inutilità delle commissioni stesse. Ma ad uscire distrutto da questa situazione è l’impianto della L. 247/12 e, di conseguenza, il Cnf. Chiamato ad essere il regolatore supremo della categoria, il CNF, avviluppato dai propri conflitti di interesse, ha sempre taciuto, e quando si è mosso lo ha fatto nella direzione sbagliata (vedi caso Di Tosto); è stato tranquillamente rieletto senza alcun riguardo per le incompatibilità, perfino per la sacrosanta rotazione circondariale, e giocoforza ha spalleggiato anche le situazioni di incandidabilità locale, fino all’inqualificabile -e controproducente-ordinanza di rimessione alla Consulta. Così facendo, non solo si è rivelato inadeguato ai compiti affidatigli dalla L. 247/12, ma ha gettato un’ombra pesantissima su quella stessa giurisdizione domestica che è sempre stata la sua ragion d’essere. L’Avvocatura si è data un dittatore, ma il dittatore deve anche sapere indicare una strada difficile, come hanno fatto Churchill e De Gaulle, piuttosto che pensare solo ai propri comodi. Sarebbe bastato un Danovi che un minuto dopo la sentenza della Consulta disse chiaramente che volenti o nolenti bisognava adeguarsi alla sentenza; è vero che lui non ne era direttamente coinvolto, ma sono certo che non avrebbe detto nulla di diverso se si fosse trovato a via del Governo Vecchio -dove peraltro ha servito onorevolmente per tanti anni- e ciò a prescindere dal fatto che si tratta di un personaggio ormai sorpassato, per quanto nobile. Diciamolo: l’Avvocatura ha sbagliato nell’individuazione del modello, mantenendo caratteristiche notabilari per un organismo che era diventato comunque rappresentativo, se non proprio politico; e ha sbagliato, ancor più tragicamente, nel selezionarne gli interpreti. È chiaro che il sistema deve essere radicalmente ripensato, anche con riferimento all’Ocf che oggi è una patetica appendice del Cnf e ha dimostrato che la rimozione delle incompatibilità si è rivelata un rimedio peggiore del male. Ma ridisegnare la governance dell’Avvocatura non è così semplice. Mascherin e i suoi accoliti potranno andarsene coi loro piedi o essere dimissionati dal Giudice Amministrativo. Non è un dettaglio irrilevante. Ma chiunque prenda il suo posto -specie se negli ultimi tempi non si è sbracciato, ma non ha dato nemmeno segnali di discontinuità, aspettando che il friulano andasse a sbattere da solo- si troverà di fronte a un panorama di macerie, con un Consiglio e un’Avvocatura privi di ogni credibilità. Il Cnf non ha dato nessuna direttiva, arroccandosi nella conservazione di un potere fine a sé stesso; ma nessuno ha nemmeno osato dire a Mascherin e ai suoi sodali che se ne dovevano andare per il bene dell’Avvocatura; nemmeno quei presidenti di ordini metropolitani che cercano di svolgere dignitosamente il loro ruolo, forse senza percepire lo sfacelo generale. E sullo sfondo sta il corpaccione informe dell’Avvocatura, che in massima porte non ha colto -o non ha voluto cogliere- la portata del problema, rifuggendo da quella rivolta morale che io avevo auspicato nei miei primi post e continuando a votare sempre gli stessi, alcuni per connivenza, molti per mera, inveterata abitudine amicale. Sì, forse un giorno riusciremo a rimuovere dal sistema tutti gli incandidabili nelle istituzioni forensi. Ma il difficile verrà allora; e ci vorrà molto tempo e molta fatica per giungere al rilancio culturale e morale di una categoria che, nel suo complesso, tocca in questo periodo il suo punto più basso. Giovanni Savigni avvocati del foro di Palermo
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