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Processo al Pm. Giustizie e ingiustizie sulla pubblica accusa.

Un libro di Bruti Liberati (ex Pm e procuratore di Milano) racconta una figura controversa.

Processo al Pm. Giustizie e ingiustizie sulla pubblica accusa.

Edmondo Bruti Liberati, ex pm e procuratore di Milano, già presidente di Magistratura democratica e dell’Associazione nazionale magistrati, ha scritto un bel libro sulla figura del Pubblico Ministero, un protagonista controverso della giustizia, come recita il titolo edito da Raffaello Cortina. È un libro che ha il merito, in un momento di forsennati attacchi della politica alla magistratura, di mettere al centro la figura che più si presta a questi attacchi in chiave garantista (va detto, non sempre ingiustificati, anche se spesso squalificati dal garantismo peloso di chi li fa).

Il libro è una ricognizione del ruolo del pubblico ministero nel nostro sistema giuridico e in quelli dei principali paesi dell’Occidente. Un’esplorazione attenta e ricca di dati e informazioni comparatistiche, che certificano la crescita di importanza e centralità della figura del pubblico accusatore in tutte le culture giuridiche, anche tra di loro molto diverse, come quelle europee continentali e quelle anglosassoni. Con dati impressionanti, come quello del 97 per cento dei procedimenti penali statunitensi che sarebbero conclusi senza arrivare al processo da un patteggiamento tra prosecutor e imputato, in una specie di contrattazione al ribasso dei reati contestati contro l’ammissione di averli compiuti (abbiamo visto qualcosa di simile anche da noi, di recente).

Ma, anche se questa ricognizione internazionale è utilissima per osservare il nostro attuale e controverso pm da una più adeguata prospettiva (quella della diffusa superiorità del momento dell’accusa su quello del giudizio, ovvero dell’identificazione popolare del giudizio con l’accusa), il libro di Bruti Liberati interessa inevitabilmente soprattutto per ciò che dice sulle nostre procure e i loro magistrati. Ecco allora le oneste analisi della cosiddetta “obbligatorietà dell’azione penale”, tanto difesa in linea di principio (con argomenti convincenti), quanto svelata nel suo discrezionale uso concreto. Ed ecco, la prevedibile presa di posizione contro la separazione delle carriere, con un’argomentazione che, personalmente, mi convince (il pm diventerebbe un poliziotto), ma più ancora mi convincerebbe se partisse dall’ammissione che questo è purtroppo in buona parte già avvenuto. I Pm sono già dei poliziotti, non solo nei telefilm.

Se qualcosa, in effetti, non persuade fino in fondo in questo libro, pur tanto chiaro e istruttivo, è proprio una sottovalutazione di quelle che l’autore chiama “patologie” degli attuali pubblici ministeri (esposizione mediatica, scarsa sensibilità al principio di non colpevolezza, “avventate iniziative”, indolenza nella ricerca anche di prove a discarico dell’imputato, assenza di dubbi ecc.), che non sono le eccezioni in cui lui sembra relegarle, ridimensionandone la gravità (ad esempio col ricalcolo del rapporto tra richieste di condanna da parte dei pm e assoluzioni finali), ma sono una costante, se non in assoluto, nei casi più socialmente vistosi trattati dalle nostre procure. A mio parere, Bruti Liberati sottovaluta anche la preoccupante tendenza a sovrapporre il giudizio morale a quello penale, frequente nelle accuse a persone molto in vista o potenti e vi scivola lui stesso quando (a p. 158), respingendo una macchinosa ipotesi di liste di priorità dei reati da perseguire, la cosa che più lo indispone è che, da quell’ipotesi, risulterebbero “nient’affatto prioritari… quei reati che… offendono beni collettivi, come la correttezza nella pubblica amministrazione, la tutela dell’ambiente, della salute pubblica”, facendo pensare che per lui questi reati siano prioritari proprio quando sta spiegando che non dovrebbe esserci alcuna priorità. Personalmente, poi, non sono del tutto convinto dalla difesa che il libro fa delle (roboanti?) conferenze stampa delle procure, in cui vedo più esibizionismo che sensibilità per la libera informazione e sarebbe stata gradita maggiore schiettezza sull’esito delle valutazioni di professionalità dei magistrati, visto che sono ottime per tutti, meno che per i cittadini che hanno a che fare con la giustizia.

Un tema che mi piacerebbe discutere con l’autore è anche quello dell’atteggiamento dei pm di fronte ai reati colposi, disastri naturali, colpa medica ecc., “uno dei problemi più delicati della giustizia”. Bruti Liberati non nasconde la sua perplessità di fronte al bisogno popolare di trovare sempre un colpevole umano condannabile per qualsiasi catastrofe naturale o anche solo incidente o accidente. Ma non dice quanto i pubblici ministeri abbiano alimentato e alimentino (in questo trovando a volte preoccupante sponda nei giudici di primo grado) la corsa dell’uomo moderno al capro espiatorio, favorita da un diritto moderno che vorrebbe lodevolmente estendere i beni da proteggere, allargando il numero di quelli collettivi, ma finisce solo per aumentare la responsabilità di coloro cui ne attribuisce la gestione, fino a livelli non esigibili per un essere umano (ad esempio nella previsione) ed esimendo contemporaneamente tutti gli altri dal dovere di rispettarli o dal senso di colpa per non averlo fatto.

Una conseguenza di questa cultura è stata la cancellazione dell’errore dall’orizzonte del possibile, e la sua immediata trasformazione in colpa penalmente perseguibile, meno che (saggiamente) proprio nell’amministrazione della giustizia, in cui è previsto per legge (tre gradi di giudizio). Quanto sono alimentate le aggressioni ai medici e persino ai veterinari ritenuti colpevoli della morte del nonno o del vecchio cane da una deriva del diritto, che non ammette più la possibilità dell’errore, vede solo colpe e moltiplica i processi, stigmatizza a posteriori di ogni caso funesto la mancata perfezione di chi ne è accusato? È questo tratto culturale diffuso che, a mio parere, non andrebbe sottovalutato guardando alla nostra pubblica accusa, che è tale non solo perché regolata dalla legge, ma purtroppo, oggigiorno, anche perché molto condivisa, preoccupantemente sintonizzata sull’ansia popolare di spiegarsi ogni disgrazia attribuendola sempre e solo a qualcuno. Ora, se la dimensione legale dell’accusa è garanzia imprescindibile della giustizia per ogni cittadino, quella popolare è un pericolo per tutti.

Di Vittorio Coletti su Huffpost

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