Il “premierato”, un’iniziativa che può rivelarsi azzardata.
Non esiste in nessun ordinamento avendo retto per poco tempo nello Stato di Israele per poi essere eliminata.
Alla vigilia del primo voto del Senato sul disegno di legge governativo che istituisce il premierato, riforma contestatissima non solo dalle opposizioni ma anche dall’assoluta maggioranza dei costituzionalisti, Marco Benedetto sul suo Blitz Quotidiano ci dà il termometro della situazione politica e delle sue prospettive, con l’approfondimento dell’attento osservatore delle vicende dei partiti non privo di una certa ironia. Scrive, “il premierato si sta rivelando una solenne presa in giro. Anche se l’elezione diretta del primo ministro mai passerà dal Parlamento al referendum, non sarà applicabile fino a quando non sarà operativa la relativa legge elettorale”. Si legge, infatti, nella “norma transitoria” approvata in Commissione al Senato: “La presente legge costituzionale si applica a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successivi alla data di entrata in vigore della disciplina per l’elezione del presidente del consiglio dei ministri e delle Camere”.
È una disposizione necessaria in quanto la riforma costituzionale richiede una legge elettorale che dia con certezza la maggioranza al primo ministro eletto dal popolo. Benedetto richiama un articolo di Emilia Patta su Il Sole 24 Ore, la quale osserva che anche se il premierato superasse la prova del referendum, fino a quando i partiti non avranno trovato l’accordo su una nuova legge elettorale, cosa che visti i precedenti può prendere molti anni, il premierato resta una bandiera senza asta nè vento che la faccia sventolare.
La circostanza – scrive Benedetto – fa sì che Giorgia Meloni si è convinta che la riforma sia una cosa seria ”ma non sa che i cavilli e i commi che hanno immortalato il manzoniano dottor azzeccagarbugli stanno trasformando la sua madre di tutte le riforme in una tipica farsa all’italiana”. Aggiungendo che “forse questo spiega perché le vittime designate del premierato, cioè i compagni di coalizione, Forza Italia e soprattutto Lega, fanno finta di niente e le vanno dietro. Sanno che è una bolla di sapone. A sinistra elaborano, teorizzano, discutono: è un modo per passare il tempo, per “fare politica”. Se le cose evolveranno come è accaduto negli ultimi dieci anni in Italia, e Meloni non riuscirà davvero a cambiare il giro del fumo, FdI farà la fine di grillini e Lega, il Pd tornerà in auge, la sinistra sarà l’utilizzatore finale del premierato. Che poi il premierato in sé sia una aberrazione è altrettanto vero, perchè viola il principio naturale della gerarchia dei poteri”.
Non è solo questo l’azzardo della riforma che, va ricordato ancora una volta, non esiste in nessun ordinamento avendo retto per poco tempo nello Stato di Israele per poi essere eliminata. La governabilità, che il premierato vorrebbe assicurare, in realtà va cercata in una legge elettorale che restituisca ai cittadini la scelta della classe politica, un argomento sempre accantonato dai partiti le cui segreterie non vogliono perdere il potere di scelta di chi sarà formalmente eletto ma in realtà nominato.
Tornando al premierato il fatto fondamentale che sembra sfuggire a molti dei politici e dei commentatori è che in una ipotesi di referendum la legge, eventualmente approvata dalle Camere, si scontrerà con la realtà impietosa dei numeri. Infatti, se si tiene conto del fatto che nelle recenti elezioni europee ha votato meno del 50% degli aventi diritto al voto è abbastanza agevole ritenere, avendo i partiti a destra e a sinistra impegnata la loro credibilità politica nella campagna elettorale quasi da farne un test rispettivamente sul governo e sull’opposizione, che i non votanti hanno manifestato un dissenso neppure troppo nascosto nei confronti della politica. Ancora più esplicito nei voti bianchi o nulli, un numero da non trascurare, in pratica quanti hanno votato la lista di Calenda. Un dissenso che, come è accaduto in precedenza, si può manifestare in modo significativo proprio nella votazione referendaria, come sa bene Matteo Renzi e come aveva imparato in precedenza Silvio Berlusconi. Oltretutto è vero che gli italiani finiscono per occuparsi poco delle istituzioni, che la politica è stata gestita dal Risorgimento in poi da piccole minoranze che peraltro un tempo avevano la dignità e l’autorevolezza di uomini come Camillo di Cavour o Giovanni Giolitti e in Repubblica di Alcide De Gasperi, Aldo Moro e Giulio Andreotti, per non citare che i più noti, ma nei momenti importanti gli italiani hanno capito che bisognava andare a votare, come nel 1948, quando furono chiamati alle urne per fermare la progressione delle sinistre socialcomuniste.
È, dunque, un gioco pericoloso quello di Giorgia Meloni che infatti lo ha riassuntivamente presentato come “o la va o la spacca”, che non è proprio un’espressione di lungimiranza politica, considerato che, numeri alla mano, quel 28% ottenuto alle europee vale meno del 26% che aveva conquistato a settembre del 2022. Percentuale sul numero dei votanti che se calcolata sul numero degli elettori offre un dato ancora inferiore e preoccupante. C’è dunque un diffuso, ampio contesto che può rivelarsi una palla al piede di una personalità che indubbiamente ha dei titoli ma alla quale piace azzardare avendo alle spalle delle truppe governate da personaggi modesti e nella convinzione che secondo l’insegnamento di Silvio Berlusconi, quello che si era offerto di farle da consigliere all’uscita dell’incontro in via della Scrofa alla vigilia della formazione del governo, tutti lo ricorderanno, si basa sull’effetto annuncio nella convinzione che sia sufficiente a garantire il consenso che nel tempo questo si rivelato sempre più sfuggente.
Anche l’idea di dire “io incarno l’Italia popolare” non regge alla lunga. Ricorda da un lato il “Presidente lavoratore” dall’altro il Duce “trebbiatore” nelle terre pontine risanate, o lo “sciatore” a torso nudo sulle nevi del Terminillo. Una cosa è il consenso elettorale, altra quello sulla capacità di gestione del potere, necessaria per garantire lo sviluppo del popolo italiano come ho di recente sottolineato a proposito delle politiche per la famiglia in relazione all’aborto quando giustificato da condizioni economiche che se fossero state gestite con intelligenza e con la richiesta adeguatezza anche dai governi precedenti avrebbero reso meno drammatico il pauroso calo demografico che mette in forse la sopravvivenza della stirpe italica.
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