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Il divieto dell’integrazione al trattamento minimo della pensione contributiva

Sospettato di illegittimità costituzionale dalla Corte di cassazione.

Il divieto dell’integrazione al trattamento minimo della pensione contributiva

L’art. 1, comma 16, della Legge 335/1995 così recita: “Alle pensioni liquidate esclusivamente con il sistema contributivo non si applicano le disposizioni sull’integrazione al minimo”.

Per affrontare l’argomento bisogna distinguere tra pensione minima e assegno sociale che rappresentano due misure di sostegno finanziario per gli anziani in situazione di bisogno.

Ma i due istituti non possono essere confusi tra loro perché rispondono, costituzionalmente, a logiche diverse.

L’assegno sociale (€ 534,41 per 13 mensilità), in favore dei cittadini ultrasessantasettenni, sprovvisti di reddito, e quindi senza un montante contributivo, serve a garantire in maniera indifferenziata, il minimo vitale mentre l’integrazione al trattamento minimo della pensione (614,77 per 13 mensilità) è uno strumento atto ad offrire ai cittadini lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze di vita (Corte Costituzionale n. 31/1986).

L’assegno sociale è riconducibile all’art. 38, primo comma, della Costituzione mentre l’integrazione al minimo è riconducibile al secondo comma dell’art. 38 della Costituzione con funzione parzialmente derogatoria del principio di proporzionalità della pensione al montante contributivo versato, a vantaggio del principio di solidarietà (Corte Costituzionale n. 31/1986, 34/81, 184/88, 15/94, 240/94, 119/97 e 152/2000).

In buona sostanza i mezzi necessari per vivere non possono identificarsi con i mezzi adeguati alle esigenze di vita.

Il principio di adeguatezza costituisce un fondamentale requisito qualitativo delle prestazioni previdenziali, atteso che una prestazione inadeguata alle esigenze di vita non sarebbe idonea a realizzare quella più intensa tutela che il secondo comma dell’art. 38 Cost. riconosce ai lavoratori, in considerazione del contributo di benessere offerto alla collettività attraverso la contribuzione previdenziale versata.

Fatta questa indispensabile premessa, va detto che la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria del 09.07.2024 ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 16, della legge 335/1995, in riferimento agli art. 3 e 38, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevede la corresponsione dell’integrazione al minimo dell’assegno ordinario di invalidità, che ha natura di trattamento pensionistico secondo il parere consolidato della Suprema Corte, in presenza dei requisiti contributivi e reddituali previsti che sia calcolato interamente con il sistema contributivo.

Questo il passaggio della ordinanza sul punto:

“38. Va premesso, in via generale, che la tutela previdenziale, per potersi realizzare deve poter contare su quel valore fondamentale della convivenza sociale, descritto nell’art. 2 Cost. che è la solidarietà, ma deve anche avere il carattere della effettività, come esplicitamente enunciato dall’art. 3 comma 2 Cost., che si occupa dell’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori anche all’organizzazione economica e sociale del paese, mentre l’art. 4 comma 1 Cost. garantisce le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro.

  1. D’altra parte, secondo la concezione condivisa dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 31/86), il precetto di cui all’art. 38 comma 2 Cost. è espressione del principio di solidarietà e criterio attuativo delle istanze di parità sostanziale (art. 3 comma 2 Cost.) che del primo sono connaturata implicazione.
  2. Ciò premesso, va detto che l’integrazione al minimo della prestazione previdenziale in generale e dell’assegno ordinario di invalidità in particolare, ha la funzione di garantire che la pensione abbia un importo minimo, quando dal calcolo in base ai contributi accreditati al lavoratore risulti un importo inferiore a un minimo ritenuto necessario ad assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita, giusta il precetto dell’art. 38 secondo comma Cost.
  3. Secondo la Corte Costituzionale, tale funzione che qualifica, come detto, l’integrazione al minimo come istituto previdenziale, si fonda non solo sul principio mutualistico-assicurativo, ma anche sul principio di solidarietà (C. Cost. n. 240/94). Il Giudice delle leggi ha avuto diverse occasioni in passato di richiamare la genesi e l’evoluzione dell’istituto della prestazione pensionistica minima dei lavoratori, allo scopo di inquadrarne la natura nell’ambito dell’art. 38 Cost. (C. Cost. n. 31/86). Tale trattamento è stato riguardato sotto un profilo oggettivo, quale garanzia, cioè, a che la prestazione pensionistica abbia comunque un determinato livello minimo (C. Cost. n. 184/88).
  4. Con riguardo, quindi, all’art. 3 Cost., va detto che si ritiene irragionevole e discriminatorio distinguere tra calcolo retributivo e contributivo dell’assegno ordinario di invalidità, consentendosi il predetto trattamento minimo solo rispetto alla prima modalità di calcolo dell’assegno.
  5. Qualunque sia il sistema – contributivo o retributivo – adottato per fondare l’an e il quantum del trattamento pensionistico, resta immutata l’unitaria esigenza espressa dall’art.38, co.2 Cost., ovvero quella di garantire al pensionato adeguate esigenze di vita. Ove tale bisogno previdenziale sussista poiché – qualunque sia il sistema di calcolo adottato – il trattamento pensionistico raggiunto – o col metodo contributivo o con quello retributivo – sia inferiore a un minimo predeterminato dal legislatore come soglia al di sotto della quale non sono assicurate dalla prestazione previdenziale adeguate esigenze di vita, la necessità dell’integrazione al minimo è ineliminabile, a meno di non voler ridurre oltre misura la soddisfazione delle esigenze di vita del lavoratore, cioè, di chi ha contribuito, in qualche modo, al benessere della collettività. Non sarebbe ragionevole, e anzi si direbbe discriminatoria, la scelta di penalizzare il pensionato attratto al sistema contributivo, rispetto ad un bisogno che è sempre lo stesso a prescindere dal modo di calcolo della prestazione pensionistica che sia risultata comunque insufficiente a soddisfare tale bisogno e ciò in quanto il sistema di calcolo contributivo è tendenzialmente meno favorevole e più restrittivo rispetto a quello retributivo (perché viene conteggiata la contribuzione su tutto l’arco di vita lavorativa e, quindi, si tiene conto anche degli anni con contribuzione minore).
  6. Né tale scelta, in danno del pensionato attratto al sistema contributivo, pare potersi giustificare con la discrezionalità rimessa al legislatore, il quale è chiamato a bilanciare l’esigenza previdenziale con l’esigenza di equilibrio della finanza pubblica.
  7. In effetti, la necessità che le scelte del legislatore si conformino ai principi espressi dall’art. 3 cost. comporta che anche le scelte di contenimento della spesa previdenziale non possono sacrificare il nucleo intangibile dei diritti tutelati dall’art. 38 cost. e devono essere rispettose dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (fra le molte, sentenze n. 250 del 2017 e n. 70 del 2015).
  8. Il Legislatore, invero, può intervenire con leggi peggiorative anche su trattamenti pensionistici in corso di erogazione, ma, anche in tal caso, purché sia rispettato il principio di ragionevolezza (cfr. Corte Cost. nn. 349/85, 822/1988, 283/93, 211/97, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’eliminazione retroattiva di una prestazione già riconosciuta, cioè, la pensione ordinaria degli spedizionieri doganali che era stata revocata a seguito dell’elevazione a 61 anni dell’età per il collocamento in quiescenza, v. Corte Cost. nn. 416/99, 446/02, 236/09, 302/10, 257/11): “non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito dai diritti soggettivi perfetti” (cfr. Corte Cost. n. 349/1985), purché ciò non avvenga, appunto, in maniera irragionevole, l’intervento si prospetti coerente con le premesse, non discriminatorio, razionale, trasparente, supportato da dati verificabili o da evidenze contabili (cfr., tra le tante, Corte Cost. n. 155/63 e n. 158/74; ma si vedano da ultimo, nn. 133/13, 70/15, 147/17, 250/17, nn. 12, 20, 107 e 166 del 2018, n. 50/19).
  9. In un caso, relativo alla disciplina dell’assicurazione facoltativa (le cui prestazioni sono calcolate secondo il criterio contributivo), la Corte Costituzionale ha ritenuto l’illegittimità del difetto di previsione da parte della norma di un meccanismo di adeguamento dell’importo nominale dei contributi versati: con ciò affermando l’importante principio che l’adeguatezza della prestazione va salvaguardata anche (se del caso) attraverso strumenti di recupero del valore della contribuzione versata (Corte Cost. n. 497/88, principio ribadito, nella stessa materia, da Corte Cost. n. 288/94).
  10. In una prospettiva più ampia, la Corte Costituzionale ha precisato che il principio di ragionevolezza ha più funzioni: limitare l’arbitrio del legislatore (Corte Cost. n. 250/17); prescegliere tra più soluzioni possibili, quella meno costosa (non tanto in termini monetari, quanto in termini di bilanciamento degli interessi contrapposti e, quindi, di sacrifici); garantire l’intangibilità di quanto risulti misura di sostegno indispensabile per una vita dignitosa (Corte Cost. n. 137/21).
  11. Le stesse ragioni dell’equilibrio di bilancio – precisa ancora la Corte Costituzionale – non possono giustificare l’eliminazione retroattiva di una prestazione già riconosciuta (Corte Cost. n. 211/97) o, comunque, “peggiorare, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole e definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente, irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività” (Corte Cost. n. 349/85).
  12. Né, in tal modo, si sconfina nell’ambito riservato alla discrezionalità del Legislatore: infatti, tale discrezionalità già si esprime nella fissazione della soglia minima di ogni trattamento. Al legislatore spetta, nella sua discrezionalità, fissare tale soglia; ma una volta individuata quella, escludere che una specifica prestazione pensionistica – nel caso di specie, quella a calcolo contributivo dell’assegno ordinario di invalidità – debba raggiungere tale soglia, implica una inammissibile disparità di trattamento rispetto alle altre prestazioni pensionistiche, così da integrare la lesione di un diritto costituzionalmente garantito”. (sentenza n. 3282/2024, Sezione Lavoro, Aula B, Corte Suprema di Cassazione).

Per l’accoglimento dell’eccezione, autorevolmente proposta dalla Suprema Corte di Cassazione, io vedo due ostacoli, uno fattuale e uno di diritto.

Quello fattuale è che l’integrazione al trattamento minimo ha un costo molto elevato se estesa anche alle pensioni contributive, costo che metterebbe a repentaglio la finanza pubblica senza interventi di altro genere.

L’osservatorio dei conti pubblici il 20 agosto 2022, con un approfondimento di Michela Garlaschi, ha quantificato quanto costerebbe aumentare le pensioni minime a € 1.000,00.

In tale approfondimento è dato cogliere dei dati molto interessanti.

Il numero di pensionati con un reddito da pensione fino a € 515,58 erano 2.153.890 con una spesa per pensioni minime nel 2020 pari a circa 8,1 miliardi e questo dato riguardava solo le pensioni retributive o da calcolo misto retributivo – contributivo.

Questo per dare un’idea in termini monetari dei relativi costi.

“Alle prestazioni totalmente assistite vanno aggiunte ulteriori 6.751.556 prestazioni parzialmente assistite, che in genere sono integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali, quattordicesima mensilità e l’importo aggiuntivo agli incapienti, erogate insieme e in somma alle pensioni IVS, ma anche all’interno di prestazioni assistenziali; al netto di 3.946.776 duplicazioni, i beneficiari parzialmente assistiti sono 2.804.780. Si raggiunge così un totale di 6.551.533 pensionati totalmente o parzialmente assistiti, il 40,6% dei 16.131.414 pensionati totali, sui quali non grava l’IRPEF o se grava lo fa in misura parziale. Inoltre, il 46,5%, del totale delle pensioni nuove liquidate dall’INPS (1.350.222, escluse le Gestioni dipendenti pubblici – GDP) nel 2022 sono pensioni totalmente assistite (pensioni di invalidità civile, indennità di accompagnamento e assegni sociali) e tra gli anni 2014-2022 queste registrano un trend tendenzialmente crescente con poche eccezioni; nel biennio 2016 e 2017 in lieve flessione e nel 2020 rispetto al 2019 un netto decremento del -18,1% dovuto al rallentamento amministrativo delle liquidazioni delle pensioni e delle visite delle commissioni mediche, causato dalla pandemia. L’arretrato è stato recuperato nel 2021 rispetto al 2020 con un incremento del 20,8% dei trattamenti liquidati e nel 2022 con un ulteriore incremento dell’8,1% rispetto al 2021”. (Fonte: XI Rapporto di Itinerari previdenziali, 2024, pag.92).

Quello di diritto è già stato evidenziato dalla Suprema Corte quando ha precisato che la scelta del Legislatore del 1995 di non applicare il trattamento di integrazione al minimo alle pensioni calcolate con il sistema contributivo, ha trovato un bilanciamento laddove il legislatore ha previsto la possibilità di acquisire il diritto alla pensione di vecchiaia già con un montante contributivo minimo, raccolto in soli 5 anni di copertura contributiva, in luogo del previgente requisito di anzianità assicurativa minima, elevato a 20 anni dalla riforma pensionistica del 1992.

 

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