Anno: XXV - Numero 53    
Venerdì 29 Marzo 2024 ore 11:00
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Ilda Boccassini doveva per forza dirci che Falcone ha tradito la moglie?

Avevamo davvero bisogno di sapere della storia d’amore fra Ilda Boccassini e Giovanni Falcone?

Ilda Boccassini doveva per forza dirci che Falcone ha tradito la moglie?

Avevamo davvero bisogno di entrare nell’intimo di un uomo di Stato che è stato vittima in un attentato della mafia 21 anni fa, e di un magistrato che ha vissuto da protagonista decine di processi pivotali per il nostro Paese?

A quanto pare sì. Almeno secondo Boccasini, da poco in libreria con “La stanza numero 30” (Feltrinelli, pp. 320), annunciato best seller che accompagna il lettore fra tribunali e dietrologie politiche, pressioni e desideri.

Aldilà dell’auto-rappresentazione che spesso sfiora comprensibili toni epici – da “la mia stanza è stata un luogo di battaglia” all’origine dei celebri “capelli di Ilda la rossa” –, il libro obbliga a una riflessione che parte da elementi di gossip più affini al mondo delle starlette o delle it-girl che a una donna di Stato. Leggendo le 343 pagine del testo, ci si imbatte in momenti cruciali della storia del nostro Paese – al lettore, una su tutte, la riflessione sul processo Berlusconi – ma la misteriosa love story in toga domina, e annulla, tutto il resto.

Fin dal primo incontro, il tono diventa quello del memoir (rosa) che difficilmente si perdona a una figura che per anni ha vestito panni istituzionali: “Mi colpirono – scrive Boccassini – i suoi occhi profondi e quella patina di malinconia che accompagnava il suo sguardo. Comunque è un figo, pensai”. E, ancora: “Ero ipnotizzata dai suoi occhi, affascinata dall’uso calibrato delle parole, dai suoi tanti silenzi, da quella cadenza palermitana, che trovavo adorabile. Lo avrei ascoltato per ore (…). Me ne innamorai”. Da quel primo approccio sembra svilupparsi – perché con cura nulla viene pienamente svelato, ma il dettaglio pruriginoso segnala l’oppurtunità – una relazione.

“Qualche volta cenavamo a Mondello, in un ristorante dove lui ordinava sempre spaghetti ai ricci di mare. Una vera bontà. A volte passeggiavamo sulla spiaggia e mi riempivo i polmoni della brezza marina. In quei momenti il male di Palermo mi sembrava così lontano e il mio cuore era pieno di Giovanni. Per anni non sono riuscita a tornare a Mondello, ad affrontare l’intensità dolorosa di quei ricordi” rivela Boccassini, citando otto righe dopo la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. La moglie che la accoglie nella casa di Addaura: è qui che viene servita la colazione e poi Falcone e Boccassini, soli, fanno il bagno: “Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto…”.

Purtroppo (per il lettore) il libro è pieno di dettagli di questo genere – come il volo in top class verso Buenos Aires, trascorso “abbracciati per ore (…) ascoltando Gianna Nannini” – che esplodono nella necessità di specificare come “il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante di tutto il resto. Sapevo di non poter condividere con lui un cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera privata né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso”.

Il lutto è filtrato attraverso un articolo di Goffredo Buccini, che sul Corriere della Sera l’indomani della morte di Falcone riporta proprio le parole della Boccassini, “l’atto d’accusa di un giudice contro altri giudici, contro un’intera corporazione e contro una parte della classe politica”. L’invettiva divenne celebre: “Voi avete fatto morire Giovanni Falcone. Con la vostra indifferenza. Con le vostre critiche… voi lo avete infangato. Voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali…”. In quel momento non c’è solo il dolore della perdita, ma anche la scoperta di come “i colleghi della procura e, in generale, del palazzo di giustizia di Milano mi evitavano come fossi un’appestata”.

È chiaro dunque come il libro travalichi la vicenda professionale di Boccassini, per addentrarsi in questioni sentimentali che non possono essere contraddette dal diretto interessato, e che in modo profondo ne intaccano l’inappuntabile immagine pubblica, offendendo anche quella della moglie morta nel medesimo attentato del 1992. Accolta con sconcerto – e difesa da molti, a partire da Gad Lerner – Boccassini è stata aspramente criticata da Maria Falcone, sorella del giudice, che ha tuonato dalle colonne de La Sicilia come “si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto, prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che — ne sono certa — avrebbero vissuto questa violazione del privato come un’offesa profonda”.

 

Lungi da analisi sentimentalistiche – che considerano Boccassini intenta a restituire forma al suo passato, anche a quello del cuore -, siamo di fronte all’appropriazione in pubblico di un sentimento privato. Un sentimento che nessuno può contestare o sminuire, e che adesso è uscito dall’oscuro per diventare di collettivo dominio. E così restarlo per sempre.

In questo modo il libro di Ilda Boccassini ci costringe a una riflessione più ampia sul tipo di società in cui viviamo. Una società in cui – come già ammoniva Tiziano Terzani, trent’anni fa – “i fatti se non sono narrati non esistono”. E dunque ci sentiamo (perché non lo siamo) obbligati a raccontare ogni dettaglio della nostra vita privata, in barba alla decenza e al rispetto che si deve a chi non c’è più.

Non è chiaro – leggendo il libro, che pure vive di retroscena interessanti come quelli che riguardano Ultimo, incontrato quando era un giovane tenente, o il rapporto fra Falcone e Tommaso Buscetta – il reale motivo per cui Boccassini si sia sentita in dovere di rivelare la sua vita intima: per ricordare il passato assecondando una vena nostalgica? Per ridefinire il suo personaggio agli occhi dell’opinione pubblica? Per vendere una manciata di copie in più e creare il suo ultimo clamore mediatico, dopo anni trascorsi in prima fila davanti agli obiettivi?

Scoprire che Falcone chiamava Boccassini “la mia selvaggia” e che considerava i suoi occhi “bellissimi”, ancor di più che le riferiva commenti assolutamente intimi e privati (come quelli inerenti l’isola delle femmine), non è forse uno schiaffo alla memoria privata e intima del giudice palermitano? Non è forse un’offesa nei confronti della sua famiglia? Non è forse una forma estrema di volgarità raccontare dei dettagli così personali e segreti per oltre vent’anni?

O, forse e piuttosto, è un esercizio di adesione ai canoni dell’auto-narrazione. Come da tempo accade con instagrammer e prezzemoline televisive, il focus viene indirizzato esclusivamente – di fronte al frequente nulla – alle questioni di letto.

Magari è semplicemente anacronistico pensare che chi ha indossato i panni dello Stato sia obbligato per sempre a mantenere un certo decoro, una volta dismesso il ruolo pubblico. E chissà se non ci toccherà capitolare di fronte a queste iper-narrazioni del sé e del proprio intimo. Ormai è abitudine offrire in pasto al pubblico elementi ammiccanti e pruriginosi, dettagli capaci di annullare qualsiasi angolo segreto per procurare click e popolarità. Di certo è evidente che questo racconto intimo intaccherà per sempre l’immagine pubblica del giudice Falcone. Il nostro Paese, come ammoniva Leo Longanesi, non ha memoria. Eppure, ha perfetto ricordo delle vicende di letto.

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