Sempre meno giovani, sempre meno laureati, e quei pochi in fuga
Per il nostro paese non è solo l'inverno demografico il problema. L'Istat ci racconta come regaliamo laureati a tutto il mondo, perché non riusciamo a tenerli: negli ultimi dieci anni persi 87mila talenti. Ed è il Sud a svuotarsi sempre più di cervelli.
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L’Italia è un Paese con sempre meno giovani, il calo demografico diventa anno dopo anno sempre più evidente. Tuttavia, parliamo di un fenomeno comune a tutto il mondo occidentale, soprattutto se mettiamo in fila i trend di natalità dei paesi europei. La cosa peggiore per l’Italia infatti è un’altra: quei pochi giovani che rimangono qui fanno fatica a laurearsi o avere un’istruzione superiore e specializzata, e quei pochissimi che riescono a laurearsi preferiscono andare a lavorare all’estero. Il nostro paese è sempre meno attrattivo per chi cerca di far emergere il proprio talento: c’entra il livello medio dei salari che è più basso rispetto alla media europea ma anche l’annosa questione di un sistema economico, soprattutto quello pubblico, che ha una sorta di allergia al concetto di meritocrazia. Questa foto, che è già terribile di per sé, diventa ancora più agghiacciante se la si scatta dentro i confini nazionali: è il Sud che funziona come una grande sacca che produce laureati per il Centro e per il Nord. Con l’effetto che il Mezzogiorno si spopola di competenze e professionalità. Si tratta di un trend che va avanti almeno dagli ultimi dieci anni – e che è stato rilevato dall’Istat nel suo consueto rapporto – ma che i demografi proiettano inalterato da qui al 2040. Un grosso guaio: a rischio è la tenuta del nostro sistema economico e di welfare, per non parlare della sostenibilità dei conti pubblici.
Partiamo dalla carenza di giovani dovuta all’inverno demografico. Qui il report annuale dell’istituto si statistica è piuttosto chiaro: “Nel 2023 in Italia si contano poco più di 10 milioni 330 mila giovani in età 18-34 anni, con una perdita di oltre 3 milioni dal 2002 (-22,9 per cento)”. Se gli ultimi dieci anni sono stati terribili, non ci si aspetta che i prossimi siano migliori, purtroppo. Se infatti non ci concentriamo solo sui giovani ma su tutta la popolazione in età lavorativa – quella che per intenderci dovrà sostenere i pensionati col versamento dei contributi previdenziali in busta paga – c’è da rabbrividire. Nelle Considerazioni finali di venerdì scorso il governatore di Bankitalia Fabio Panetta è stato sintetico ma diretto: “Da qui al 2040 il numero di persone in età lavorativa diminuirà di 5,4 milioni di unità, malgrado un afflusso netto dall’estero di 170mila persone l’anno. Questa contrazione si tradurrebbe in un calo del pil del 13 per cento, del 9 per cento in termini procapite”. Insomma, già adesso e in prospettiva sempre di più, ci sono meno persone al lavoro e questo significa meno crescita economica negli anni a venire. Sono dati che solo apparentemente sembrano in controtendenza con i buoni risultati sul fronte dell’occupazione che sono stati raggiunti negli ultimi mesi e di cui il governo Meloni va molto fiero: del mezzo milione di occupati in più rispetto all’anno scorso, la maggior parte è concentrata nella fascia over 55. Fenomeno dovuto un po’ alle aziende che preferiscono tenere a bordo personale avanti con l’età ma di fiducia e qualificato e un po’ al fatto che con la legge Fornero è aumentata l’età pensionabile. Per gli under 55 quindi lavorare in Italia è sempre una questione complicata.
Il declino demografico, come detto, è trend consolidato per quasi tutti paesi occidentali, soprattutto quelli europei. Quindi non è problema precipuo italiano. Il vero fallimento per il nostro paese sta nel doppio fenomeno bassi laureati – elevata emigrazione. Praticamente non solo abbiamo in percentuale meno laureati rispetto alla media europea – siamo al 20 percento, davanti solo alla Romania e molto indietro rispetto a gli altri – ma quei pochi che formiamo preferiscono andarsene all’estero. Il nostro paese è una specie di contributore netto di laureati al resto del mondo: per l’Istat nella fascia d’età 25-34 anni, tra il 2013 e il 2022, il saldo netto è stato negativo di ben 87mila talenti. Un trend che si è arrestato solo negli anni del Covid per riprendere, come se non fosse successo nulla, nel 2022: in un solo anno il deflusso è stato di 12mila risorse qualificate. Perché? Semplice: secondo Panetta i giovani italiani in fuga sono “attratti da opportunità retributive e di carriera decisamente più favorevoli. L’esodo indebolisce la dotazione di capitale umano del nostro paese, tradizionalmente afflitto da bassi livelli di istruzione”.
La situazione al Sud poi è ancora peggiore perché i neo-laureati del Mezzogiorno hanno una duplice scelta: andare all’estero oppure spostarsi dentro i confini per cogliere la migliore opportunità di lavoro. E infatti così come l’Italia dà i suoi cervelli migliori al mondo, così le regioni meridionali li forniscono al Centro e al Nord. Sempre secondo l’Istat, in dieci anni hanno perso 168mila giovani laureati che si sono spostati sì all’estero ma anche sopra il Tevere. Tant’è che grazie a loro le regioni centrali sono riuscite a tamponare il flusso in uscita mentre quelle settentrionali addirittura ad avere un segno positivo: più 82mila risorse qualificate. Insomma, il Sud si svuota sempre più di cervelli a vantaggio del resto d’Italia.
Come detto, un quadro preoccupante, che peraltro trova spazio nullo nella campagna elettorale per le Europee. Ma tanto a noi italiani che ci frega: abbiamo Vannacci e la Decima Mas.
di Gianni Del Vecchio su Huffpost
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