Per il bene del paese dire sì da riformisti alla separazione delle carriere
Chi scrive è l’ex senatore (di Pds, Ds e Pd) Enrico Morando: nonostante limiti e forzature, la riforma appartiene da sempre alla cultura liberale della sinistra riformista. E al referendum valutiamo il merito e non facciamone un test per le elezioni politiche.
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Si è concluso al Senato l’esame della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, con lettura identica a quella della Camera. In alcuni gruppi dell’opposizione prevale un orientamento maggioritario contrario e la disciplina di gruppo è un valore importante. Essa però dovrebbe essere l’esito di un confronto tra posizioni diverse, che andrebbero esplicitate senza autocensure.
Pesa, nella valutazione e nel voto, la compressione forzosa dei tempi che rivela una mancata volontà di dialogo, già vista nella prima lettura della Camera. Pesa ancora di più, in quelle valutazioni, la mancata correzione del grave errore di aver voluto prevedere meccanismi di sorteggio per la composizione dei nuovi Consigli superiori, separati tra Consiglio requirente e Consiglio giudicante. Tuttavia, non essendo il testo più emendabile, bisogna ora andare al cuore della questione.
La sinistra riformista (si pensi alla battaglia condotta da Emanuele Macaluso) ha sempre visto nel principio della separazione delle carriere un dato positivo di impronta liberale, purché essa non conduca a forme di subordinazione verso l’esecutivo (che non è presente in alcun modo nel testo). Per questa ragione, in libertà, la gran parte dei riformisti ha votato Sì ai due referendum abrogativi su leggi ordinarie promosse dai Radicali e già il fatto che la Corte abbia ammesso referendum su leggi ordinarie a Costituzione invariata rivela che la separazione di per sé non scardina nulla negli equilibri costituzionali.
Peraltro, alcuni di noi erano anche parlamentari quando nel 1999 approvammo la riforma costituzionale dell’articolo 111, dopo la quale la nostra Carta ora recita: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Non ci sfuggiva allora che parlare di giudice terzo fosse un momento di passaggio per giungere alla consequenziale separazione delle carriere. Nell’ultimo referendum promuovemmo anche un apposito appello a cui rinvio.
Ora. Come già accennato, il testo non è più emendabile. Chi si trova fuori dal Parlamento dovrà comunque esprimersi come cittadino elettore nel referendum finale, che sarà con tutta probabilità richiesto. Anche in questo referendum, sia pure di natura diversa, saremo chiamati a scegliere non per appartenenza di partito, non per dinamiche interne nei partiti e tra i partiti, ma sulla base del bene superiore del Paese.
Per questa ragione, nella massima libertà, credo che chi si vuole collocare in continuità con questa ispirazione liberale di sinistra, debba prepararsi ad animare una posizione favorevole, che sia altrettanto chiara nella collocazione politica alternativa all’attuale maggioranza. Di modo che, anche stavolta, nel referendum si possa valutare sul merito della proposta, non trasformando la prova referendaria in un test per le successive elezioni politiche.
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