Anno: XXV - Numero 71    
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Pensioni. Metodi di calcolo contributivo e retributivo a confronto

Il sistema contributivo di calcolo della pensione è il perno su cui ruota la riforma Dini del 1995. In questo regime, la pensione cui si ha diritto è strettamente collegata alla contribuzione versata nell’arco dell’intera vita lavorativa e non agli stipendi dell’ultimo periodo così come avveniva con il sistema retributivo.

Pensioni. Metodi di calcolo contributivo e retributivo a confronto

L’introduzione del nuovo meccanismo di calcolo era finalizzata al riequilibrio, una volta raggiunto il pieno regime, della spesa previdenziale, arrivata a livelli insostenibili nel periodo antecedente la riforma.

Il sistema contributivo funziona grosso modo come un “libretto di risparmio”. Il lavoratore provvede, con il concorso dell’azienda, ad accantonare annualmente, nel caso dei lavoratori subordinati, il 33% del proprio stipendio, di cui, più precisamente, il 23,81% è a carico dell’azienda, mentre il restante 9,19% a carico del lavoratore; nel 2019, la quota a carico del dipendente sale al 10,19% per la sola fascia di retribuzione mensile che supera i 3.929 euro. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, l’aliquota per artigiani, commercianti e coltivatori diretti, a partire dal 2018, è invece fissata in misura pari al 24% del reddito. Il capitale così versato produce una sorta di interesse composto, commisurato a un tasso legato alla dinamica quinquennale del PIL e all’inflazione. Tanto che è possibile affermare che più cresce l’Azienda Italia, maggiori saranno le rendite su cui si potrà contare.

Alla data del pensionamento al montante contributivo, vale a dire la somma rivalutata dei versamenti effettuati, si applica un coefficiente di conversione che cresce con l’aumentare dell’età. Per il biennio 2019-2020, il coefficiente è a esempio pari al 4,200%, per chi chiede la rendita a 57 anni (perché divenuto invalido, ad esempio), mentre sale al 5,245% per resta al lavoro fino a 65 anni e al 5,604% se si decide di arrivare fino a 67 anni.

Ecco dunque un esempio di calcolo riguardante un giovane entrato stabilmente nel mondo del lavoro a 27 anni d’età, con uno stipendio di 15 mila euro. Il primo anno accantona 4.950 euro (il 33% di 15 mila), il secondo anno ne accantonerà 5.115 (il 33% dello stipendio di 15.500 euro) e così via. Dopo 40 anni (a 67 anni di età) supponiamo che abbia accumulato 300 mila euro (valore già capitalizzato): il montante accumulato gli consentirà di ottenere una pensione annua di 17.100 euro (1.316 euro al mese al lordo dell’Irpef).

Cos’è il massimale e come si applica?

Il sistema contributivo si differenzia da quello retributivo anche su un altro punto fondamentale: l’esistenza di un tetto contributivo-pensionabile, il cosiddetto massimale, vale a dire un limite oltre il quale non sono dovuti i contributi. Allo stesso tempo, la quota di retribuzione che eccede il tetto non darà alcun beneficio in termini di pensione.

Il massimale viene annualmente rivalutato sulla base dell’indice Istat dei prezzi al consumo: il valore utile per l’anno in corso èpari a 102.543 euro Questo significa, ad esempio, che la quota pensionistica di accantonamento riferita al 2019 non può superare i 33.839 euro per i dipendenti e i 24.610 euro per gli artigiani e commercianti, rispettivamente il 33% e il 24% del tetto.

Uno specifico massimale sussiste per i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali (commercianti e artigiani) e in possesso di contribuzione antecedente il 31 dicembre 1995: in questo caso, il massimale è pari al limite di retribuzione annua pensionabile maggiorato di due terzi. Il massimale di reddito annuo è stato fissato a 77.717 euro per il 2018 (ricavato dalla prima fascia de cosiddetto tetto di retribuzione pensionabile, maggiorato appunto di due terzi), mentre sale a 78.572 euro per il 2019. Più precisamente, artigiani ed esercenti dovranno applicare il 24% sul reddito d’impresa dichiarato al fisco sino a 47.143 euro e il 25% sulla quota di reddito tra 47.143 e 78.572 euro. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda in ogni caso alle schede di riferimento.

Attenzione! Secondo quanto disposto dall’articolo 21 del decreto-legge n.4 del 28 gennaio 2019, hanno facoltà di richiedere l’esclusione opzionale dal massimale contributivo i lavoratori della pubblica amministrazione che, iscritti a forme pensionistiche obbligatorie a far data dall’1 gennaio 1996, prestano servizio in settori in cui non sono attive forme di previdenza complementare compartecipate dal datore di lavoro. La domanda dovrà essere inoltrata a 6 mesi dall’entrata in vigore dal decreto o, in alternativa, dalla data di assunzione o da quella di superamento del massimale contributivo.

 

Cosa sono i coefficienti di trasformazione e ogni quanto vengono aggiornati?

Conoscere il proprio montante contributivo però non basta. Alla data di pensionamento, al montante – vale a dire la somma rivalutata dei versamenti effettuati, viene infatti applicato un coefficiente di trasformazione, che cresce con l’aumentare dell’età, premiando di fatto quanti vanno in pensione più tardi. È quindi grazie a questi valori che il montante contributivo diventa pensione a tutti gli effetti.

I coefficienti di trasformazione variano in base all’età anagrafica del lavoratore nel momento in cui raggiunge l’accesso alla prestazione previdenziale, dai 57 ai 70 anni: maggiore è l’età del pensionando, maggiore sarà quindi anche il valore del coefficiente. Al di sotto dei 57 anni, viene comunque applicato il coefficiente previsto per questa fascia anagrafica. I coefficienti, che rappresentano un importante “correttivo” attraverso cui far fronte al progressivo innalzamento dell’età media, sono revisionati automaticamente, a partire dal 2019, ogni 2 anni anziché ogni 3 come inizialmente previso dalla riforma Monti-Fornero (la riforma Dini prevedeva una revisione decennale).

Attenzione! La revisione dei coefficienti interessa ora anche i lavoratori con almeno 18 anni di contribuzione maturati entro il 31 dicembre 1995, cui si applica il criterio di calcolo misto: retributivo fino al 2011 e contributivo per l’anzianità acquisita del 2012 in poi.

La quota C

Per le pensioni con decorrenza dall’1 gennaio 2012 in poi, il calcolo della rendita deve tener conto anche di un’ulteriore quota (C), riferita all’anzianità acquisita successivamente al 31 dicembre 2011. La riforma Monti-Fornero ha infatti introdotto il criterio di calcolo contributivo per tutti, compresi coloro che potevano contare su 18 anni di versamenti al 31 dicembre 1995, i quali per lungo tempo hanno continuato a beneficiare  del solo criterio retributivo.

Per spiegare meglio le operazioni da eseguire per determinare la misura della rendita, si riporta il caso di un soggetto di  65 anni di età che chiede  la pensione con decorrenza all’1 gennaio 2018 con 43 anni di contribuzione ed una retribuzione annua media pari a 38 mila e 300  euro, riferita agli ultimi 5 anni e 37 mila e 500  euro riferita agli ultimi 10. Gli stipendi sono stati aggiornati con i coefficienti Istat.

Per determinare la quota “C” è stato individuato l’intero “accantonamento” maturato, ossia il 33% della retribuzione percepita nell’intero periodo che decorre tra l’1 gennaio 2012 e il 31 dicembre 2017 (77.963 euro), valorizzando il risultato moltiplicandolo per il 5,326%, il coefficiente di trasformazione stabilito nel sistema “contributivo” per chi chiede la pensione all’età di 65 anni.  La pensione è pari dalla somma dei seguenti valori:

quota A: anzianità maturata a tutto il 31 dicembre 1992 pari a 18 anni. La retribuzione media annua è computata sulla base del quinquennio gennaio 2013-dicembre 2017, cui si applica l’aliquota di rendimento del 36% (18 per 2%);

quota B: l’ulteriore anzianità contributiva maturata dall’1 gennaio 1993 al 31 dicembre 2011 (19 anni). La retribuzione media annua è computata in base ali ultimi 10 anni (gennaio 2008 –  dicembre 2017), cui si applica l’aliquota di rendimento del 38% (19 per  2%);

quota C: l’ulteriore anzianità contributiva maturata dall’1 gennaio 2012 al 31 dicembre 2017 (6 anni),  Per determinare la quota “C” occorre individuare “l’accantonamento” maturato, ossia la retribuzione dell’intero periodo per il 33%, e valorizzarlo moltiplicandolo per il 5,326%, il coefficiente di trasformazione stabilito nel sistema “contributivo” per chi chiede la pensione all’età  di 65 anni.

Questo il conteggio:

quota A:  38.300  per 36%  (18 anni sino al 31 dicembre 1992, per 2%) = 13.788 euro;

quota B:  37.500  per 38%  (i 19 anni dal 1993 al 2011 per 2%) =  14.250 euro

Il soggetto ipotizzato avrà dunque diritto a una pensione annua, al lordo dell’Irpef, pari a 32.190 euro (13.788 di quota A, più 14.250 di quota B, più 4.152 di quota C),  ossia un assegno mensile di  2.476 euro  (pensione annua diviso 13).

L’opzione: scegliere il regime contributivo conviene?

Il sistema di calcolo contributivo non riguarda dunque solo i giovani, cioè coloro che hanno iniziato a lavorare dal primo gennaio 1996 in poi. A determinate condizioni, infatti, può interessare tutti. Anche chi era già in attività alla data del 31 dicembre 1995 ha potuto aderirvi su base volontaria, rinunciando completamente al criterio retributivo. La normativa ha previsto, infatti, la possibilità di optare per la liquidazione della pensione contributiva, utilizzando anche le contribuzioni versate entro il 31 dicembre 1995, a condizione che: a) un’anzianità maturata al 31 dicembre 1995 inferiore a 18 anni; b) un minimo complessivo di 15 anni di contributi; c) almeno 5 dei 15 anni di contributi giàversati con il sistema contributivo (ossia a partire dall’1 gennaio 1996 in poi).

L’opzione, contenuta nella riforma Dini, che prevedeva una certa flessibilità nell’età di uscita del regime contributivo, soprattutto con la possibilità di percepire la pensione già a 57 anni, indipendentemente dalla contribuzione versata, ha però via via perso quasi completamente di significato. La scelta del contributivo ha negli ultimi anni offerto qualche vantaggio concreto alle sole donne che hanno potuto beneficiare della cosiddetta opzione donna.

I dipendenti pubblici

Anche il criterio di calcolo della pensione dei dipendenti pubblici si differenzia a seconda dell’anzianità contributiva maturata dai singoli lavoratori alla data del 31 dicembre 1995: più o meno 18 anni (calcolo misto), nessuna anzianità (calcolo interamente contributivo).

Il metodo retributivo

Il metodo di calcolo della quota retributiva è praticamente simile a quello utilizzato per i dipendenti privati iscritti all’INPS, ossia somma di due quote (A e B):

Quota “A”, basata sull’importo della retribuzione percepita l’ultimo giorno di lavoro, rapportata al coefficiente di “rendimento” maturato al 31 dicembre 1992 in base all’anzianità contributiva maturata alla stessa data;

Quota “B” determinata sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi 10 anni precedenti il pensionamento.

Attenzione! Per il calcolo della quota A (anzianità maturata fino al 1992) si fa riferimento alle vecchie regole, precedenti la riforma Amato. È utile, quindi, qualche precisazione. La  retribuzione utilizzata per determinare l’importo della rendita è costituita dall’ultimo stipendio che per gli statali viene maggiorato di una quota convenzionale del 18% per tenere conto, in modo forfettario, di alcune voci, come lo straordinario ed altri assegni, non rientranti nella base pensionabile. Inoltre, l’indennità integrativa speciale,  e cioè la contingenza dei dipendenti pubblici, in passato veniva calcolata a parte e corrisposta, per chi andava in pensione per limiti di età, nella misura dell’80%, indipendentemente dall’anzianità di servizio raggiunta.

L’ammontare del trattamento relativo all’anzianità maturata al 31 dicembre 1992 è stabilito, per gli statali, in misura pari al 35% della retribuzione pensionabile, per l’anzianità minima di servizio di 15 anni. Per ogni anno utile oltre il  quindicesimo, l’aliquota di rendimento viene aumentata dell’1,8% fino a raggiungere  l’80% in presenza di 40 anni di anzianità. Per il personale degli Enti locali e delle Asl (iscritti ex Cpdel), il trattamento  spettante si ricava invece moltiplicando lo stipendio pensionabile per l’aliquota di rendimento variabile in base all’anzianità di servizio utile. Si va da un minimo del 37,05% per una copertura assicurativa di 15 anni al 100% per i 40 anni.

Nella valutazione dell’aliquota di rendimento, i periodi di servizio maturati dal 1° gennaio 1995 in poi valgono il 2% l’anno (la stessa aliquota di rendimento prevista per le pensioni Inps). In altre parole, l’aliquota pensionistica relativa al servizio totale, utilizzata per il calcolo della “quota B”, viene determinata sommando alla precedente aliquota prevista, in corrispondenza del servizio utile al 31 dicembre 1994, quella del 2% l’anno per i servizi successivi al 1° gennaio 1995. Il metodo contributivo è completamente analogo a quello utilizzato dall’Inps.

Un esempio di calcolo

Si prenda il caso di un dipendente comunale che ha lasciato il servizio il 30 giugno 2017 con un servizio complessivo pari a 43 anni e mezzo.  Questi i dati da considerare per il calcolo del trattamento di quiescenza:

retribuzione pensionabile alla data della cessazione dal servizio, 29.000 euro (quota A);

retribuzione pensionabile media (aggiornata) degli ultimi 10 anni, 28.000 euro (quota B);

anzianità di servizio al 31 dicembre 1992: 19 anni;

anzianità di servizio maturata dal 1° gennaio 1993 al 31 dicembre 1994: 2 anni;

anzianità di servizio maturata dopo il 1° gennaio 1995 (1° gennaio 1995-31 dicembre 2011): 17 anni.

Il trattamento di pensione spettante si ricava dalla seguente operazione:

Quota A: 29.000,00 euro per 43,3% pari a 12.557 euro

Quota B: 28.000,00 euro per  49,40% pari a 13.932  euro

Importo pensione quota retributiva: 12.557 più 13.932 pari a 26.389 euro

Vediamo come si è giunti a questo risultato. Il 43,30% rappresenta l’aliquota di rendimento su 19 anni (anzianità a tutto il 31 dicembre 1992), così come previsto dal relativo ordinamento previdenziale prima dell’intervento della riforma Amato. Il 49,40 %  rappresenta  la differenza tra l’aliquota pensionistica relativa al servizio totale 92,70% (38 anni al 31 dicembre 2011) e quella già utilizzata per il calcolo della quota A (43,30%).

Alla quota retributiva come sopra calcolata va aggiunta la quota “C” (contributiva), relativa al servizio prestato dal 1° gennaio 2012  al 30 giugno 2017 (5 anni e mezzo). Per determinare la quota “C” occorre individuare “l’accantonamento” maturato, ossia la retribuzione dell’intero periodo per il 33%, e valorizzarlo moltiplicandolo per il coefficiente di trasformazione riferito all’età dell’interessato. Ipotizzando un’età di 65 e una retribuzione annua di 28.000 euro, avremo: 28.000 per 5,5 per 33% (154.000) per  5,326% (il  coefficiente di trasformazione stabilito per chi chiede l’assegno a 65 anni). Tale operazione fornisce il seguente risultato: 8.202 euro. In sostanza,  la pensione del soggetto ipotizzato sarà pari a 26.389 (quota retributiva) più 6.951 (quota contributiva), ossia in totale 34.591, 2.661 euro al mese al lordo dell’Irpef.

Fonte. Pensioni & levoro

 

 

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