Anno: XXV - Numero 73    
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La cosiddetta “paura della firma” certifica la mediocrità di molti dirigenti della P.A.

Inseriti negli uffici dalla politica per preparare una riforma da attuare col favore delle tenebre

La cosiddetta “paura della firma” certifica la mediocrità di molti dirigenti della P.A.

Ricorre da tempo nel dibattito politico-giornalistico sul livello di efficienza della Pubblica Amministrazione il tema cosiddetto della “paura della firma”, detta anche “amministrazione difensiva” che affliggerebbe i funzionari responsabili delle decisioni di spesa al punto da rallentarle nel timore di incorrere in responsabilità di natura risarcitoria. Ne ha parlato anche il Presidente del Consiglio in varie occasioni nelle quali ha messo insieme la modifica del reato di “abuso d’ufficio” e la responsabilità per “danno erariale”, quale conseguenza di effetti dannosi per la finanza pubblica, situazioni considerate alla base della ritrosia ad assumere decisioni comportanti spese. Con la conseguenza di contribuire a non garantire quei livelli di efficienza che richiedono i cittadini e le imprese, soprattutto straniere, con gravi danni per l’economia del Paese.

Buttata lì nel dibattito e semplificata come amano fare i politici può darsi anche che qualche cittadino meno addentro delle questioni dell’amministrazione ritenga che questo è vero, che effettivamente funzionari di prim’ordine, con un livello di preparazione eccellente, aggiornati sulla dottrina giuridica e sulla giurisprudenza amministrativa e contabile, nonostante s’impegnino al massimo sono letteralmente terrorizzati da controlli occhiuti e da procuratori della Corte dei conti novelli Torquemada che alimentano i loro incubi notturni sulla sorte dei loro patrimoni messi a repentaglio da pesanti risarcimenti. Nulla di tutto questo, naturalmente. Lo scenario è diverso e ci dice di un progressivo degrado della Pubblica Amministrazione in un contesto di dimensioni sempre più elefantiache. Sia l’apparato centrale, nonostante il trasferimento di significative funzioni alle regioni, sia quelli di questi enti, dei comuni e delle province, riserva di potere dei potentati politici periferici, obnubilati dal perseguimento del loro particulare attraverso clientele politico affaristiche che assicurano consenso elettorale e contribuiscono ai “costi della politica”.

Il risultato, che i cittadini hanno sotto gli occhi, è una diffusa inefficienza e sprechi intollerabili dovuti ad una burocrazia che gestisce e contribuisce a creare ed a modificare una legislazione caotica, ridondante, spesso di difficile interpretazione, come dimostra il fatto che su una medesima fattispecie si possono acquisire pronuncie dei giudici amministrativi molto diverse. Un sistema normativo che si presenta come implementazione e modificazione di normative risalenti, pensate in altri contesti e con altra strumentazione operativa, norme che spesso risultano di successive integrazioni parziali tali da far sfuggire l’originario senso della disposizione. Contemporaneamente è progressivamente diminuito il livello professionale della dirigenza pubblica, come dimostra l’incapacità, soprattutto di regioni ed enti locali, di dare attuazione a preziosi programmi finanziati con risorse europee spesso rimaste inutilizzate. Situazione che si è aggravata nel tempo nonostante l’Italia abbia costantemente fruito di ingenti interventi, come quelli un tempo della Banca Europea degli Investimenti (B.E.I.), in misura nettamente superiore a quelli riservati ad altri stati, la maggior parte dei quali li hanno costantemente utilizzati fino all’ultimo centesimo, come insegna, ad esempio, la Spagna.

E qui vanno comprese le ragioni dell’inefficienza di un apparato pletorico e disorganico che il potere politico ha nel tempo progressivamente disarticolato moltiplicando oltre ogni esigenza i posti di funzione per soddisfare il desiderio di carriera dei funzionari del tutto trascurando le finalità di pubblico interesse cui la struttura amministrativa è naturalmente preordinata. Un esempio che vale per tutti. Il Ministero delle finanze all’inizio degli anni ‘60 era articolato in sette direzioni generali, personale, imposte dirette, tasse e imposte indirette, Demanio, Dogane, finanza locale, finanza straordinaria. Oggi il settore finanze del Ministero dell’economia annovera un numero di dirigenti di prima fascia di molto superiore a cento. La moltiplicazione non ha accresciuto il livello professionale né ha mantenuto i precedenti livelli. Moltiplicando i posti di funzioni dirigenziale, un po’ confondendo le funzioni direttive con quelle dirigenziali, sono stati contestualmente ridotti i sistemi di selezione degradati al punto che negli ultimi concorsi, in concomitanza anche con la necessità di disporre di personale per gestire i programmi del PNRR, come se per mettere in linea un funzionario professionalmente dotato fosse sufficiente il diploma di laurea, magari triennale, e non una adeguata formazione, sono stati introdotti criteri assolutamente inadeguati, come i quiz, mentre sarebbe stato necessario selezionare i candidati sulla base di elaborati che consentano di valutare le loro attitudini professionali, la loro capacità di formulare una interpretazione della normativa legislativa e regolamentare per risolvere una pratica e consapevolmente apporvi la firma.

Se sbagliano, dunque, pagano i funzionari, non i politici che hanno creato le condizioni nelle quali gli addetti operano, selezionati come i politici hanno voluto per reclutare in fretta e acquisire consensi negli uffici, perché l’interesse del politico è che i posti di responsabilità siano affidati non ai migliori ma agli amici. Roberto Alesse, alto dirigente dello Stato e studioso noto per le sue analisi sulla P.A., in un aureo saggio su “Il declino del potere pubblico in Italia – come salvare la classe dirigente nell’era della globalizzazione e delle pandemie” (Rubbettino, 2021) ultima elaborazione di uno studio iniziato negli anni 2000 e pubblicato in Giurisprudenza Costituzionale, espone con competenza, con estrema chiarezza e con non comune coraggio le ragioni di questa caduta di livello dell’amministrazione. A cominciare dalla considerazione che a livello politico “una tra le più audaci riflessioni appare quella secondo la quale i dirigenti dovrebbero avere la fiducia dei governi, allo stesso modo in cui gli esecutivi godono della fiducia dei Parlamenti”. Idee “avventuristiche”, scrive, “e, dunque, pericolose in quanto distoniche rispetto a qualsiasi ordinamento, come il nostro, che si basi sul rispetto del principio di legalità e sulla ormai consolidata e dicotomica distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo, riservata ai rappresentanti del governo, e quella di natura gestionale, che compete alla burocrazia di ruolo, vincitrice di concorso pubblico”. Non è casuale questo riferimento al concorso, come mezzo ordinario di provvista del personale previsto in Costituzione (art. 97), perché dalla “mancata semplificazione delle strutture e dei plessi amministrativi coinvolti nella conclusione, non tempestiva, dei procedimenti e dall’assenza di un permanente progetto di riordino della legislazione, la cui urgenza è tale da richiedere iniziative straordinarie”, Alesse giunge alla critica del reclutamento dei dirigenti cui provvede la politica attraverso quell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 165 del 2001 che ha comportato la nomina di persone “affiliate” alla politica chiamate, “a volta a volte senza avere uno straccio di competenza tecnica, a ricoprire posti “chiave” specie in quelle amministrazioni che detengono, al loro interno, rilevanti centri di spesa”. Ed è così che, oltre a creare situazioni che minano l’efficienza degli apparati incidendo sulla “convivenza” negli uffici, urtando la “suscettibilità professionale della classe dirigente vincitrice di concorso, mortificando le aspettative dei funzionari di ruolo che ricoprono posizioni apicali nelle varie amministrazioni di appartenenza i quali aspirano a divenire dirigenti attraverso ulteriori prove selettive rispetto a questo a quelle di ingresso”, la politica non è stata in grado di assicurare, in modo permanente, all’interno di ciascun ufficio pubblico la provvista necessaria di personale altamente specializzato necessario all’espletamento delle procedure istituzionali.

Sono questi, i “nominati” dalla politica, che manifestano il “timore” della firma per il semplice motivo che sono incerti sul da farsi. E premono sulla politica, con l’ausilio delle quinte colonne di consulenti del principe provenienti dagli organi di controllo e giurisdizionali i quali si prestano a predisporre proposte di revisione dei controlli o delle regole della responsabilità per soddisfare le richieste di chi vuole essere tenuto indenne da responsabilità. Attenzione, non che non si possa intervenire per correggere e precisare norme e prassi e trarre dall’esperienza motivi di adeguamento delle regole dei controlli e delle responsabilità, magari meglio delimitando quella funzione consultiva delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, introdotta nel 2003 con la legge “La Loggia” ad iniziativa dell’Ufficio del Vicepresidente del Consiglio dei ministri, on. Gianfranco Fini. In ogni caso sono interventi da meditare sulla base dell’esperienza valutando i possibili effetti di ogni revisione normativa, anche per soddisfare esigenze reali e non comode sinecure capaci di dare della classe politica l’immagine di una “casta” che tutela incapaci e disonesti in un momento nel quale i cittadini, soprattutto della classe media, tartassati da un sistema fiscale obiettivamente esoso non sono disposti ad accettare che chi usa i loro risparmi passati al bilancio dello Stato e degli enti pubblici possa farlo impunemente, magari con norme predisposte ad hoc e fatte filtrare, col favore delle tenebre, in qualche provvedimento che magari tratta di sport o di turismo, tanto la regola della omogeneità di materia (la sedes materiae) ormai sta soltanto nei libri di scuola e nelle periodiche tirate d’orecchio del Capo dello Stato a Governo e Parlamento. Fino alla prossima occasione.

di Salvatore Sfrecola

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