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Come sta il Servizio sanitario nazionale, 45 anni dopo

Dai finanziamenti agli incassi legati al ticket, dai tempi di attesa alla carenza di personale fino alla mobilità sanitaria: Wired usa i dati per raccontare lo stato di salute del Ssn, istituito nel 1978

Come sta il Servizio sanitario nazionale, 45 anni dopo

Il 23 dicembre 1978 entrava in vigore la legge che ha istituito il Servizio sanitario nazionale (Ssn). In occasione del 45simo anniversario di questa norma, Wired ha raccolto alcuni dati per raccontare lo stato di salute di chi si occupa della salute degli italiani.

Il primo elemento per raccontare il Ssn è certamente il più prosaico, ma anche il più importante: quello economico. Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2023 la spesa italiana per il servizio sanitaria è stata pari al al 6,8% del Pil, dato che pone il nostro paese al 15simo posto in Europa. Se però si guarda ai numeri assoluti, come nel grafico sottostante, i finanziamenti alla sanità in questo paese sono in crescita da anni.

Secondo i dati forniti da Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), dal 2001 ad oggi il finanziamento al Servizio sanitario nazionale è quasi raddoppiato: era pari a 71,3 miliardi di euro nell’ultimo anno in cui ancora si usavano le lire, raggiungerà i 130,4 nel 2024. O almeno, questa è la previsione contenuta nella legge di bilancio. E che, se confermata dal parlamento che la sta esaminando in questi giorni, porterebbe a 2.224 euro la spesa pro capite per la salute.

Tornando ai dati storici, sono solo tre le occasioni in cui, nel periodo considerato, c’è stata una contrazione del finanziamento al Servizio sanitario. La prima nel 2006 (-0,02%), la seconda e più consistente nel 2013 (-0,89%), l’ultima nel 2015 (-0,19%). L’aumento più consistente nel 2005, quando la spesa salì del 13,1%, seguito da quello approvato nel primo anno della pandemia, il 2020, che fece aumentare del 5,31% la spesa sanitaria.

Un’altra fonte di finanziamento del Sistema sanitario nazionale è rappresentata dal ticket. La somma complessiva, pari secondo Agenas a poco più di 1 miliardo per il 2022, è di due ordini di grandezza inferiore rispetto al finanziamento istituzionale, ma il tema tocca da vicino i cittadini che hanno bisogno di usufruire di una prestazione.

Non solo: dipendendo in maniera diretta dal numero di prestazioni eseguite, i dati relativi alle somme ‘incassate’ dal Ssn grazie al ticket contribuiscono a dare un’idea dell’impatto della pandemia sulle prestazioni sanitarie. Nel grafico sottostante la situazione che consente di visualizzare anche l’andamento nelle singole regioni (con l’eccezione di Alto Adige, Basilicata e Calabria, per le quali alla pubblicazione dei dati mancava il consolidato economico del 2022).

               

 

Nel 2019 le somme versate dai cittadini per accedere alle prestazioni sanitarie, sempre con l’eccezione di Alto Adige, Basilicata e Calabria, ammontavano a 1,3 miliardi di euro. L’anno successivo sono crollate a 790 milioni. In numeri assoluti si tratta di un calo di 513 milioni di euro, in percentuale del 39,4%. Ancora nel 2022, rispetto al 2019, gli incassi legati al ticket segnavano -22%.

Uno degli indicatori per misurare lo stato di salute del sistema sanitario nazionale è certamente rappresentato dai tempi di attesa per accedere alle prestazioni. Sempre il sito di Agenas, fornisce informazioni rispetto alla percentuale di interventi in classe di priorità A effettuati nelle tempistiche previste. Si tratta di interventi, come spiega il Portale per la trasparenza dei servizi per la salute, che devono essere compiuti entro 30 giorni, perché riguardano “casi che possono aggravarsi rapidamente pregiudicando gravemente la salute del paziente”.

Si tratta delle operazioni per il melanoma in Calabria e gli interventi chirurgici per i pazienti affetti da tumore al colon e alla tiroide in Alto Adige. Il dato peggiore riguarda invece le operazioni per il tumore alla prostata in Basilicata: solo il 13,3% di quelli in classe A è stato effettivamente realizzato entro 30 giorni dalla diagnosi.

Fin qui le operazioni chirurgiche. Ma che succede con visite ed esami? A questo proposito, nella scorsa primavera, Agenas ha lanciato insieme alla Fondazione The Bridge un monitoraggio ex ante dei tempi di attesa delle prestazioni ambulatoriali. In altre parole, ha chiesto di fornire i dati relativi alle prenotazioni effettuate tra il 22 e il 26 maggio di quest’anno, specificando se visite ed esami siano stati erogati entro i termini. Nel caso specifico, entro 10 o 60 giorni, a seconda del grado di urgenza del paziente. Nel grafico sono riportati, nel dettaglio, i risultati.

I filtri nella parte bassa consentono di selezionare il tipo di visita e il grado di urgenza. Le barre in blu fanno riferimento a quelle regioni per cui sono stati raccolti tutti i dati, quelle rosse ai territori in cui la raccolta è stata parziale. Nel dettaglio dall’Abruzzo hanno risposto solo le Asl di L’Aquila e Chieti, dalla Campania solo Napoli 2 Nord e Salerno, dal Lazio Roma 1 e Rieti, dalla Sardegna Oristano, dall’Umbria Perugia e Terni, dal Veneto le Asl Dolomiti, Berica e Euganea.

Da questa sperimentazione, si legge in una nota, emerge come “la prima visita cardiologica è garantita nell’84% dei casi” per i pazienti con maggiore urgenza, e “nell’80% dei casi” per quanti possono attendere 60 giorni. Per la prima visita ortopedica si scende, rispettivamente, al 74% e al 78% dei casi. Sul fronte della diagnostica, i tempi di prenotazione delle Tacsono rispettati per il 78% dei pazienti con urgenza e nell’89% per coloro che possono attendere, mentre per un’ecografia all’addome le percentuali di rispetto delle tempistiche si attestano rispettivamente al 78 e all’89% dei casi.

Importante anche sottolineare che a peggiorare queste statistiche contribuiscono anche gli utenti, che “nel 51% dei casi scelgono una data peggiorativa rispetto a quella che gli viene offerta” dal sistema. In tre casi su quattro, questo avviene perché si chiede “di poter avere la prenotazione presso una struttura diversa da quella proposta in prima disponibilità”. i ritardi, in altre parole, non sono solo imputabili al Ssn.

La carenza di personale

Tra le cause dei ritardi imputabili al Servizio sanitario nazionale c’è certamente la carenza di personale. Secondo Il Sole 24 Ore mancano 4mila medici nei pronto soccorso, 5mila medici di base e tra i 60 e i 70mila infermieri. Il tema è che questo problema appare destinato ad aggravarsi. Valga, su tutti, l’esempio relativo ai medici di medicina generale, l’importanza dei quali è stata ben avvertita durante la pandemia. Secondo il ministero della Salute, al 2021 il 75,3% era in servizio da oltre 27 anni, mentre solo l’1,6% aveva iniziato a lavorare da meno di 6 anni. Nel grafico il dettaglio su base regionale.

 

Con la sola eccezione dell’Alto Adige, dove i medici di medicina generale con oltre 27 anni di lavoro alle spalle sono ‘solo’ il 53,4% del totale, per le altre regioni d’Italia si pone un serio problema di ricambio generazionale di quei professionisti che rappresentano il canale di accesso ai servizi legati alla salute. Tornando agli ospedali, per far fronte alla carenza di personale molte realtà fanno ricorso ai cosiddetti gettonisti. Ovvero medici che lavorano per delle cooperative e che costano al Ssn nazionale molto più dei professionisti assunti. Una situazione che sta creando problemi economici, tanto che ci sono realtà come la Lombardia che hanno deciso di bandire i gettonisti.

In un paese in cui esistono 21 sanità a livello locale, un altro tema centrale è quello legato alla cosiddetta mobilità sanitaria. Ovvero al fatto che ci siano dei pazienti che scelgono di farsi curare al di fuori della propria regione di residenza. Vuoi perché si sentono più sicuri ad affidarsi a professionisti che operano in altre parti del paese, vuoi perché, e questo è l’elemento problematico, la regione in cui vivono non è in grado di soddisfare il loro bisogno di salute.

Da Wired

 

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