Zuppi tra principi e mediazione
Una Chiesa che non comanda ma dialoga nel tempo della fragilità e della laicità.
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Sul fine vita, i diritti e la pace, il cardinale indica una via difficile: fedeltà ai valori, rispetto dello Stato laico, responsabilità politica davanti al dolore umano e alla complessità del presente.
Le parole di Matteo Maria Zuppi colpiscono per il tentativo, non scontato nel dibattito pubblico italiano, di tenere insieme fedeltà ai principi e realismo storico. Non c’è arretramento dottrinale, ma c’è la consapevolezza che la Chiesa oggi non può più parlare da posizione di egemonia culturale. Quando Zuppi ricorda che “non siamo più nell’epoca della cristianità”, riconosce un dato di fatto: la società è plurale, frammentata, attraversata da visioni diverse dell’uomo e della vita. Da qui nasce una postura nuova, meno assertiva e più dialogica, ma non per questo rinunciataria.
Sul fine vita, la riflessione è particolarmente significativa. Zuppi non cede sul no a suicidio assistito ed eutanasia, che per la Chiesa restano un confine invalicabile, ma allo stesso tempo accetta il terreno della mediazione politica. Invita il Parlamento a legiferare seguendo la Consulta, riconoscendo che l’inerzia normativa produce ingiustizia e solitudine, soprattutto per i più fragili. In questo senso, l’apertura alla depenalizzazione di alcuni comportamenti in casi estremi non è un compromesso al ribasso, ma il tentativo di ridurre il male dentro un contesto imperfetto, assumendo fino in fondo il principio di laicità dello Stato.
Centrale è la sua idea di dignità: non coincide con l’autodeterminazione assoluta, ma con l’essere “amati e protetti nella fragilità”. È una visione controcorrente in una cultura che tende a leggere la dignità come controllo totale sulla propria vita e sulla propria morte. Zuppi ribalta la prospettiva: la vera indignità non è la dipendenza, ma l’abbandono. Da qui l’insistenza sulle cure palliative, che diventano non un dettaglio tecnico, ma una cartina di tornasole della civiltà di un Paese.
Anche sui diritti e sulle questioni identitarie, il suo linguaggio è misurato ma netto. Combattere discriminazioni e violenze non significa aderire a ogni rivendicazione culturale; accompagnare non equivale a legittimare tutto. È una posizione scomoda, perché rifiuta sia la logica dello scontro sia quella dell’appiattimento, e chiede una maturità etica che spesso manca nel dibattito pubblico.
Infine, sulle guerre e sul riarmo, Zuppi mostra una visione profondamente politica nel senso alto del termine: la pace non è un’astrazione morale, ma un equilibrio fragile tra principi e realtà. Anche qui emerge la stessa cifra: realismo senza cinismo, fedeltà ai valori senza ideologia.
Nel complesso, le parole di Zuppi sembrano indicare una Chiesa che non vuole ritirarsi né comandare, ma abitare le contraddizioni del presente, accettando il rischio del dialogo e della mediazione. È una posizione esigente, che chiede molto sia ai credenti sia alle istituzioni: non slogan, non muri identitari, ma responsabilità condivisa davanti alla fragilità umana.
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