Anno: XXVI - Numero 232    
Martedì 2 Dicembre 2025 ore 13:15
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Tra ruolo istituzionale e retorica militante

Perché il caso delia relatrice Onu espone le contraddizioni della nostra democrazia contemporanea.

Tra ruolo istituzionale e retorica militante

Le polemiche intorno alle voci indipendenti dell’Onu rivelano fragilità sistemiche: confusione dei ruoli, personalizzazione e incapacità collettiva di distinguere analisi, militanza e responsabilità istituzionale.

In un tempo in cui la comunicazione scorre senza filtri, si amplifica all’istante e rimbalza da un capo all’altro del sistema mediatico, ogni presa di parola proveniente da una figura istituzionale diventa molto più di quel che è. Assume un valore simbolico, politico, identitario. Diventa oggetto di giudizi non solo sul contenuto, ma sulla postura, sul tono, persino sull’espressione fotografica. Così è accaduto anche nel caso recente che ha coinvolto la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese: un dibattito che, in apparenza, riguarda una persona e il suo modo di comunicare, ma che in realtà è la spia di un problema più profondo, di una fragilità collettiva che riguarda la percezione dell’autorità e la dedizione alle regole democratiche del discorso pubblico.

Il primo elemento che colpisce è la naturale ambiguità che caratterizza la posizione dei relatori speciali dell’Onu. Molti cittadini non sanno, e spesso nemmeno si curano di sapere, che queste figure non sono portavoce degli Stati membri né rappresentanti diretti dell’organizzazione. Sono esperti indipendenti, scelti per la loro competenza tecnica e giuridica, incaricati di monitorare, documentare e riferire su specifiche situazioni critiche in materia di diritti umani. Non parlano “a nome dell’ONU”, ma in virtù di un mandato che richiede autonomia di giudizio, rigore nell’analisi e libertà da pressioni governative. Questa indipendenza, che dovrebbe essere una garanzia, si trasforma però facilmente in una zona grigia. Quando un relatore usa un linguaggio forte, metaforico o emotivo, molti lo interpretano come una presa di posizione politica dell’intera ONU. Quando denuncia abusi o violazioni, le parti coinvolte leggono la denuncia come un attacco personale o come un ingerenza geopolitica. Quando si esprime con passione, la passione diventa prova di militanza. È in questo cortocircuito percettivo che si innesta la tempesta mediatica che regolarmente investe figure come la Albanese.

Non è raro che chi svolge questo lavoro ricorra a forme comunicative più nette, più accese, più vicine alla denuncia che al gergo burocratico. Si tratta di una conseguenza quasi inevitabile del contesto: chi osserva ogni giorno violazioni, sofferenze, disuguaglianze strutturali, spesso sente il bisogno di rendere visibile ciò che vedono. Ma la sensibilità pubblica contemporanea è diventata allergica agli eccessi di tono quando provengono da chi ricopre un ruolo istituzionale. L’opinione pubblica, già polarizzata e tesa, reagisce come se ogni parola fosse una dichiarazione di guerra ideologica. E qui si apre la questione cruciale: l’imparzialità non è neutralità emotiva. Non è silenzio, non è diplomazia gelida, non è la rinuncia a esprimere urgenza morale. L’imparzialità risiede nel metodo, nella solidità delle prove, nella coerenza dei criteri. Ciò che conta è che le stesse violazioni siano valutate allo stesso modo, indipendentemente dall’identità dei responsabili o dal clima politico del momento. Ma nel dibattito pubblico questo concetto viene spesso sovvertito: si giudica lo stile prima dei contenuti, il volume prima dell’analisi, la retorica prima dei dati.

A complicare il quadro c’è la crescente estetizzazione dell’autorità. Viviamo in un’epoca in cui l’immagine, il corpo e il gesto parlano quanto – se non più – delle parole. Una fotografia con un dito alzato diventa un segno politico; un sopracciglio inarcato diventa prova di arroganza; una frase enfatizzata diventa simbolo di santità o di fanatismo. In questo contesto, il rischio per chi ricopre un ruolo pubblico è enorme: ogni dettaglio stilistico viene trasformato in un frammento identitario, che poi viene utilizzato per sostenere narrazioni radicalmente opposte. La Albanese è stata descritta sia come un’eroina morale sia come un’ayatollah in chiave laica. Non importa quali siano i contenuti del suo lavoro; per molti contano più le forme, i gesti, l’impatto simbolico. La conseguenza è la sostituzione del dibattito con il pregiudizio estetico, un fenomeno che impoverisce il ragionamento democratico e alimenta la cultura della reazione istantanea.

È in questo clima che il tema della responsabilità istituzionale viene distorto fino a diventare irriconoscibile. Certo, è legittimo aspettarsi che chi ricopre un mandato così delicato mantenga un certo rigore formale. Si può chiedere prudenza, accortezza, sobrietà. Ma trasformare ogni enfasi in un atto di militanza, ogni giudizio in un tradimento della neutralità, significa ignorare la specificità del ruolo e la complessità del contesto in cui opera. Non si può pretendere che chi ogni giorno documenta sofferenze umane gravissime parli come un notaio o un ingegnere. La passione, quando è sostenuta da una metodologia rigorosa, non è un difetto: è il naturale prodotto dell’esperienza sul campo. Il problema nasce quando questa passione viene interpretata alla luce della polarizzazione politica, diventando munizione per le narrative identitarie che dominano il dibattito pubblico.

La polemica attorno alla Albanese ha poi assunto una dimensione che travalica di molto la sua figura. Si è trasformata in un referendum implicito sull’ONU, sulle istituzioni internazionali, sulla globalizzazione, sulla sovranità nazionale. C’è chi l’ha dipinta come la prova vivente della politicizzazione del sistema ONU; chi l’ha invocata come simbolo di coraggio; chi l’ha attaccata come espressione di un organismo ormai inefficace. Tutto, tranne un’analisi puntuale del suo mandato e dei limiti strutturali con cui deve confrontarsi. L’ONU, nel suo complesso, è un compromesso permanente fra interessi divergenti: pretendere che sia un tempio incontaminato di imparzialità significa non capire la sua natura. È un’arena, un luogo di negoziazione, una struttura imperfetta che vive di tensioni. E tuttavia, nella retorica pubblica, la si vuole pura o la si condanna come inutile. Non c’è spazio per le sfumature, per le contraddizioni, per le complessità. Eppure, proprio queste complessità definiscono il valore e i limiti dell’organizzazione.

La discussione sulla nonviolenza, evocata anche nei commenti più critici, si inserisce in questo quadro come esempio di come la percezione collettiva sia cambiata. Viviamo in democrazie che, paradossalmente, tollerano meno il conflitto simbolico rispetto al passato. Le vetrine rotte, evocate come esempio di “protesta degenerata”, vengono percepite come minacce alla tenuta democratica, dimenticando che le nostre società hanno superato decenni ben più difficili, con violenze politiche infinitamente più gravi. Questa crescente fragilità percettiva rende l’opinione pubblica ipersensibile a qualsiasi elemento che sembri destabilizzante, sia esso reale o solo simbolico. La passione verbale di un relatore ONU e una manifestazione con qualche atto vandalico vengono trattate come sintomi dello stesso declino. È una semplificazione estrema, che impoverisce la capacità di distinguere tra ciò che mette realmente in pericolo la democrazia e ciò che fa semplicemente parte della sua fisiologia.

Quello che davvero emerge da questa vicenda è la nostra fatica nel separare le persone dai ruoli. Ogni figura pubblica diventa la personificazione di un sistema, di un’ideologia, di una battaglia culturale. La Albanese è diventata, suo malgrado, un avatar della discussione sulla neutralità delle istituzioni internazionali. Non si valuta più il suo lavoro, ma il significato che le si attribuisce. Non si discute più del mandato, ma dell’immagine. Questo processo di personalizzazione esasperata è uno dei grandi mali del dibattito contemporaneo. Trasforma ogni questione complessa in una sfida fra individui, erodendo il rispetto per le istituzioni e indebolendo il tessuto democratico.

Eppure, tutto questo si potrebbe affrontare diversamente se avessimo la pazienza di distinguere le sfere. È legittimo criticare lo stile comunicativo di un relatore ONU. È legittimo chiedere maggiore sobrietà quando la forma rischia di offuscare il contenuto. È legittimo mettere in discussione la scelta delle parole. Ma è scorretto trasformare questi elementi in una condanna totale del ruolo o dell’istituzione. La critica non deve diventare delegittimazione. E nemmeno la difesa deve trasformarsi in santificazione.

Il caso Albanese, in questo senso, è uno specchio. Ci rimanda l’immagine di una società che ha perduto il senso della profondità, che legge tutto in superficie, che confonde gesto e pensiero, posa e contenuto. Ci mostra una democrazia in cui la discussione pubblica si costruisce per accumulo di reazioni emotive. Ma ci mostra anche, se sappiamo guardare, una possibilità: quella di ripensare il nostro modo di ascoltare le voci istituzionali, distinguendo ciò che conta – il metodo, i dati, la coerenza – da ciò che, pur avendo peso, rischia di distorcere il senso complessivo dell’analisi.

Il dibattito di questi mesi è stato acceso, talvolta scomposto, spesso ingeneroso. Ma può essere un’occasione per fare un passo avanti. Per ricordare che la democrazia non è solo un insieme di regole, ma un esercizio continuo di interpretazione responsabile. Che le istituzioni non sono perfette, ma nemmeno fragili al punto da cadere per un gesto o una frase. E che la critica, quando è motivata e non viscerale, rafforza la credibilità di chi la riceve e di chi la formula.

Se vogliamo un discorso pubblico più maturo, dobbiamo imparare a separare il ruolo dalla persona, la funzione dalla retorica, l’analisi dal commento. Dobbiamo evitare la scorciatoia di trasformare ogni figura pubblica in un simbolo totalizzante. Dobbiamo recuperare il gusto della complessità, la capacità di leggere i documenti, la volontà di valutare il lavoro prima dello stile. Non è un esercizio brillante quanto la polemica, ma è l’unico che permette a una democrazia di non frantumarsi nella superficie delle impressioni. In un mondo che corre verso la semplificazione permanente, la capacità di distinguere tra gesto e contenuto, tra retorica e metodologia, è forse la più urgente forma di resistenza democratica disponibile.

 

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