Il coraggio di Emma.
E la fatica di difendere ciò che abbiamo già conquistato.
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Emma è sempre stata così. Ruvida, diretta, sincera fino alla brutalità. Le sue parole – spesso scomode, sempre necessarie – hanno rappresentato da anni una bussola di verità, empatia e giustizia. Ma con il distacco di chi sa che la legge, per funzionare, non può essere travolta dall’emotività. Emma ha parlato quando serviva, ha combattuto quando era necessario. E spesso l’abbiamo ascoltata senza capirla davvero, o dando per scontato il terreno solido che ci stava aiutando a costruire.
Insieme a Marco, è stata una delle voci che ci ha permesso di affermare diritti fondamentali, quelli che dovrebbero appartenere a chiunque: libertà, dignità, autodeterminazione. Ma oggi, quegli stessi diritti sembrano sfumare sotto il peso di nuovi vincoli, di una burocrazia normativa che soffoca più che proteggere. Il più alto tra questi diritti – quello di scegliere liberamente se continuare a vivere oppure no – è ormai ridotto a desiderio tollerato, esercitabile solo sotto il più rigido dei controlli esterni. Un paradosso crudele, che trasforma una scelta intima in un atto da autorizzare.
Emma ci ha insegnato che questa scelta non può essere delegata. Non si disperde tra cavilli, pareri e comitati. Non può essere imbrigliata nei profluvi regolativi che invadono ogni nostro gesto. È, e deve restare, un diritto. Punto.
Oggi, però, Emma è stanca. Vecchia – lo diciamo con affetto – segnata dal tempo e dalle battaglie. Ma il suo spirito è ancora lì, granitico, stoico. E se non può più guidarci come prima, forse può insegnarci l’ultima lezione: come difendere ciò che abbiamo già conquistato. Perché è questa la sfida più difficile. Non solo ottenere giustizia, ma preservarla. Proteggerla dal logorio dell’abitudine, dall’erosione del compromesso, dall’indifferenza.
Grazie, Emma. Anche per quello che ci costringi a non dimenticare.
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