Anno: XXVI - Numero 239    
Venerdì 12 Dicembre 2025 ore 13:20
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A Capaci e via d'Amelio i fatti parlano più dei miti.

Nessuna pista nera, nessun regista occulto: sulle stragi pesarono omissioni, gelosie professionali e un potere mafioso sottovalutato.

A Capaci e via d'Amelio i fatti parlano più dei miti.

C’è un tratto ricorrente nella storia italiana: quando emergono fatti scomodi sulla stagione delle stragi, si tenta immediatamente di spostare l’attenzione altrove. È successo molte volte e sta accadendo di nuovo dopo l’audizione del procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca in commissione antimafia. Una reazione corale, preconfezionata, che rivela l’incapacità — o forse la non volontà — di misurarsi con il punto centrale: la mafia non fu eterodiretta, né manovrata da poteri occulti. La mafia, soprattutto quella corleonese, fu soggetta politica a sé, capace di condizionare lo Stato e non di esserne semplice braccio operativo.

A ricordarcelo non è De Luca, ma Giovanni Falcone. È lui ad aver spiegato, con una lucidità che oggi appare quasi profetica, che la lettura del rapporto mafia–politica è spesso “inadeguata”, deformata dalle esigenze e dalle convenienze della lotta politica. Ed è ancora lui a sottolineare che Cosa nostra non subiva le regole del gioco: le imponeva. Da qui occorre partire, se davvero vogliamo capire perché Falcone e Borsellino furono uccisi.

E invece si torna puntualmente alla caccia al fantasma: la pista nera, le trame eversive, il ruolo improbabile di personaggi come Stefano Delle Chiaie. Una narrativa rassicurante, perché trasforma la mafia in un esecutore di ordini altrui e alleggerisce lo Stato dalle proprie responsabilità. Ma non è ciò che dicono gli atti. Non è ciò che emerse dalle indagini. Non è ciò che raccontano i magistrati uccisi.

La reazione del Movimento 5 Stelle al lavoro di De Luca rientra perfettamente in questo schema. Accuse sulla forma, allusioni sul metodo, sospetti su un’ipotetica violazione di garanzie procedurali. Tutto legittimo, se non fosse che i fatti smontano queste ricostruzioni: la commissione antimafia ha pieni poteri d’indagine, e la tempistica delle deleghe non mostra alcun ritardo del ROS tale da spiegare l’archiviazione della pista mafia–appalti. Anzi, emerge l’esatto contrario: il ROS avvisa la procura della conclusione del riascolto già il 30 giugno 1992; la richiesta di archiviazione arriva due settimane dopo. Se qualcosa non funzionò, non avvenne nelle caserme, ma negli uffici giudiziari.

Ciò che davvero pesa, e che nessuno sembra voler affrontare, è il vuoto investigativo su snodi cruciali: i fratelli Buscemi, la Ferruzzi–Gardini, Pino Lipari. Due anni senza approfondire figure centrali dell’intreccio mafia–impresa. Due anni in cui la pista mafia–appalti, che oggi torna a mostrarsi per quello che era — un movente concreto, credibile, documentato — fu lasciata scivolare nell’ombra.

Fa quasi sorridere che una parte politica gridi al complotto mentre, per una volta, i fatti ricostruiti sono lineari. A dispiacere, semmai, è vedere un Partito Democratico trascinato dentro la stessa lettura complottista, rinunciando a un approccio laico e documentale che dovrebbe essere il suo tratto distintivo. Così facendo, lascia alla destra l’insolito ruolo di custode di una ricostruzione basata sugli atti.

Non c’è bisogno di dietrologie per spiegare le stragi. Ce lo ricordano Falcone e Borsellino: la mafia uccise perché si sentì minacciata, perché certi equilibri economici e politici stavano saltando, perché voleva riaffermare un dominio. Tutto il resto — le piste nere, i misteri, le narrazioni alternative — serve a spostare l’obiettivo da ciò che realmente fallì: un sistema giudiziario incapace di proteggere i suoi migliori magistrati e spesso prigioniero di gelosie interne, rivalità, cecità professionali.

Le stragi non furono un enigma. Furono un fallimento. E continuare a raccontarle come un thriller di serie B non aiuterà mai a evitarne altri.

 

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