IL RITORNO DEL NATALE A BETLEMME.
Dopo quattro anni, si torna a celebrare la messa di mezzanotte alla chiesa di santa Caterina in Terra Santa.
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Più impalpabile ancora la tregua per i civili: quelli di Gaza, in povertà estrema; quelli in Cisgiordania, travolti dalle violenze dei coloni; quelli di Israele, indignati dal sospetto che si voglia seppellire la verità sul 7 ottobre
Per le strade di Betlemme si rivedono migliaia di persone, le luci e i mercatini di Natale. “Dopo due anni di silenzio abbiamo deciso di riaccendere il Natale, lo spirito di cui tutti hanno bisogno qui per offrire la speranza di poter continuare a rimanere e non andarsene”, afferma Maher Canawati, sindaco della città. Davanti alla Chiesa della Natività, in Piazza della Mangiatoia, splende nuovamente un albero alto venti metri. La cerimonia di accensione di inizio dicembre era stata salutata da un applauso dei presenti. La quasi totalità sono palestinesi, provenienti dalla Cisgiordania e da Israele. In tempi normali Betlemme verrebbe presa d’assalto dai turisti, ma per ora da queste parti se ne incontrano pochi. Per due anni la guerra ha cambiato tante cose, ha spento le luminarie del luogo in cui i cristiani credono che sia nato Gesù, in segno di lutto e rispetto per quanto stava accadendo a pochi chilometri di distanza. Anche il bambinello del presepe di Taybeh, l’ultimo villaggio in Cisgiordania completamente cristiano, nei due anni precedenti era stato messo in ginocchio sopra un cumulo di macerie. Ora invece è tornato sul giaciglio di paglia.
“Qui il Natale si celebra senza grandi festeggiamenti, a parte la liturgia. Però c’è davvero tanta gioia”, dice il cardinale Pierbattista Pizzaballa. “Sia un Natale di luce”, auspica al suo arrivo a Betlemme per celebrare la Messa della Vigilia nella chiesa di Santa Caterina. Tra Covid e guerra, sono cinque anni che il Patriarca di Gerusalemme dei Latini non tiene qui la tradizionale Messa natalizia.
Il Natale a Betlemme non è solo una questione religiosa. Molte famiglie basano il loro sostentamento quotidiano sui ricavi del turismo. Durante la guerra di Gaza, il tasso di disoccupazione in città è balzato dal 14% al 65%. I turisti sono pochi perché c’è paura, quelli che arrivano soggiornano altrove, acuedo la sofferenza dei commercianti che da anni hanno visto crollare gli affari. Quando un cittadino ebreo entra in città viene immediatamente riportato indietro dalla polizia israeliana per ragioni di sicurezza, come accaduto a una madre e una figlia trovate a vagare per le strade.
Ufficialmente, questo sarebbe il primo Natale senza bombe. La tregua militare è messa a durissima prova: media sauditi scrivono di raid dell’Idf a Rafah e Gaza City, Israele accusa Hamas per il ferimento di un suo soldato, Benjamin Netanyahu promette una reazione. La fase due dell’accordo resta all’orizzonte, ma non si avvicina. A complicarla sono anche le dichiarazioni del ministro della Difesa Israel Katz, che chiede “l’aiuto di Dio” per istituire “gruppi di pionieri nel nord di Gaza al posto degli insediamenti che sono stati evacuati”. Poi ritratta. I patti non erano questi e, secondo la stampa israeliana, dagli Usa sono subito accorsi a ricordarlo.
La tregua dei civili è ancora più impalpabile. “La situazione – racconta sempre Pizzaballa in una recente intervista – rimane molto difficile, con numerosi problemi che rendono la vita quotidiana complicata e incerta”. Nella Striscia di Gaza “i problemi sono ancora tutti sul tappeto. Bisogna ricostruire case, scuole, ospedali. La popolazione vive in una povertà estrema, in mezzo alle fognature e alle immondizie”. Non tutto è perduto: “C’è il desiderio di ricostruire la propria vita. La gente non si sente affatto abbandonata dal mondo”. Con una dovuta distinzione: “Un conto è la comunità politica, un altro è la società civile”.
A Gaza, dove secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc) non è più in corso una carestia, ma vive una situazione comunque critica, con circa 1,6 milioni di persone (su 2 milioni totali) in tutta la Striscia che restano in condizione di grave insicurezza alimentare.
In Cisgiordania la violenza contro i civili ha superato i livelli di guardia: i dati dell’Onu indicano 233 morti palestinesi nel 2025, tra cui 52 minorenni, con oltre 700 palestinesi feriti in 1.600 attacchi. Ogni giorno la cronaca si aggiorna di nuove violenze in questa terra contesa. L’Ong israeliana Peace Now ha registrato 80 insediamenti costruiti nel 2025, il numero più alto dalla nascita dei suoi archivi nel 1991. Il 21 dicembre, il governo israeliano ha approvato altri 19 insediamenti, compresi ex insediamenti illegali. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che l’obiettivo era bloccare la nascita dello Stato palestinese, ha ribadito le sue priorità al premier Benjamin Netanyahu in procinto di incontrare Donald Trump negli Stati Uniti: “Ci aspettiamo che lei torni da Washington con una decisione sulla sovranità de jure”. E quindi con il permesso per annettere la Cisgiordania. Da dove Smotrich partecipa a una inaugurazione di una nuova struttura dell’Amministrazione civile, con il sogno di aprirla anche su altri territori palestinesi: “Non è lontano il giorno in cui, se Dio vuole, questo edificio fornirà servizi governativi anche agli insediamenti a Gaza”.
Benjamin Netanyahu deve affrontare il problema giudiziario delle accuse a suo carico, con la richiesta di grazia sul tavolo del presidente Isaac Herzog, e il problema politico delle indagini sul 7 ottobre. Per la prima volta un suo ministro – Amichai Chikli, responsabili per gli Affari della Diaspora – chiede pubblicamente un’indagine per chiarire le accuse nell’ambito del Qatargate, secondo cui stretti collaboratori del premier avrebbero ricevuto soldi dal Qatar, il più grande finanziatore di Hamas.
Oggi la Knesset ha approvato in via preliminare il disegno di legge con cui il governo vuole istituire una commissione di inchiesta scelta dal Parlamento per decretare le responsabilità sul 7 ottobre e far luce sulle falle nella sicurezza. Netanyahu vuole sostituirla alla commissione statale, i cui membri sono scelti dalla magistratura con cui è in rotta da anni. Nelle intenzioni del premier, l’esame deve allargarsi anche agli accordi di Oslo del 1993, al ritiro da Gaza del 2005 e alle proteste contro la sua riforma giudiziaria del 2023.
Per l’opposizione è inaccettabile. Anche la società civile si sta mobilitando, con le proteste davanti alle case dei ministri. La piazza è una costante di questi anni di conflitto. Con il ritorno a casa degli ostaggi, sono cambiati gli slogan. Prima nei loro cartelli campeggiava la scritta “Riportateli a casa”, adesso si pretende di “Non seppellire la verità”. L’accusa al governo è di “sputare in faccia” alle vittime e alle loro famiglie, di “profanare e disonorare la memoria dei caduti”, come sentenzia in conferenza stampa Rafi Ben Shitrit, che ha perso suo figlio a Gaza. “Qualsiasi legislatore che alzi la mano a favore di un comitato creato per insabbiare e occultare la verità porterà un marchio di vergogna a vita, una macchia che lo seguirà per sempre”.

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