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L’Anm non ci sta: senza abuso d’ufficio l’Italia è “fuorilegge”

Il sindacato delle toghe difende l’articolo 323 del codice penale in Commissione. Santalucia: il pm potrebbe «utilizzare fattispecie più gravi». Caiazza: «Crea problemi invece di risolverne, unica soluzione eliminarlo»

L’Anm non ci sta: senza abuso d’ufficio l’Italia è “fuorilegge”

«Abolire o trasformare in illecito il reato di abuso d’ufficio rischia di porci in contrasto con le carte internazionali». E ancora: in assenza di tale reato, il pm potrebbe «utilizzare fattispecie più gravi», come la corruzione. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia è chiaro: l’abuso d’ufficio non si tocca. Anche perché dopo la riforma del 2020 e con la riforma Cartabia, che rende più efficace il filtro per il rinvio a giudizio, di problemi se ne vedono pochi. Prova ne è che solo due denunce su 10 arrivano a giudizio e in ogni caso sono molte le assoluzioni anche dopo un processo.

Il numero uno del sindacato delle toghe lo ha detto in Commissione Giustizia, dove questa mattina è stato audito nell’ambito dell’esame delle quattro proposte di legge di modifica o abrogazione del reato. Proposte che il magistrato chiede, sostanzialmente, di cestinare, alla luce delle convenzioni internazionali, come quella Onu o la carta di Merida, che impongono obblighi di incriminazione. Dopo la riforma del 2020, che ha prodotto «una forte tipizzazione della fattispecie», sulla cui base l’abuso di ufficio si connota per la violazione di una specifica regola di condotta che non lasci margini di discrezionalità, «è sostanzialmente venuto meno – e questo ce lo dicono i dati statistici – il pericolo». E per lenire il timore degli amministratori di poter finire coinvolti in un procedimento penale, Santalucia cita la tanto vituperata riforma Cartabia, che restringe «fortemente il rischio che ci siano procedimenti messi su senza che poi si arrivi ad un processo». La conseguenza, in caso di abrogazione o modifica, è infatti peggiore dell’attuale paura della firma, ovvero – così come sostenuto anche dalla presidente della Commissione Giustizia al Senato, Giulia Bongiorno (Lega) – di «costringere il pubblico ministero» a utilizzare «fattispecie più gravi», come la turbativa d’asta, il falso o la corruzione, reati che, oltretutto, «autorizzano anche l’uso di strumenti investigativi più insidiosi», come le intercettazioni telefoniche.

Un concetto ribadito dal segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro, che ha fatto riferimento al «contesto generale di innegabile delicatezza in cui ci troviamo, connesso al Pnrr, con l’arrivo di ingenti risorse», nel quale l’abuso d’ufficio «costituisce una possibilità di soglia di attenzione maggiore nei confronti dell’operato delle pubbliche amministrazioni». A sostenere le argomentazioni espresse dai due magistrati anche Roberto Garofoli, presidente di sezione del Consiglio di Stato, secondo cui è vero che le denunce sono tante, «tante volte seriali» o «pretestuose», ma «sono in calo». E sono tante anche «le denunce nei confronti dei magistrati» che non hanno archiviato. Ciò perché «le denunce sono gratuite, non costano», ma «credo siano destinate a diminuire».

Solo nel 2021 è stato archiviato l’85% delle denunce, un elemento da valutare non in negativo, «perché attesta una capacità di filtro anche da parte della magistratura inquirente». Inoltre, il numero di archiviazioni è alto anche per tutti gli altri reati – la percentuale è del 62% -, quindi se fosse solo il dato numerico ad essere decisivo sarebbero tanti gli ambiti in cui intervenire per il legislatore, un pericolo che non si può correre. «Le condanne sono poche – ha detto ancora Garofoli – per scelta del legislatore del 2020, che ha escluso la discrezionalità dal campo di applicazione dell’abuso d’ufficio e per un’applicazione rigorosa di quella scelta legislativa che la Cassazione ha fatto in questi due anni». Una possibile conseguenza, secondo il consigliere di Stato, è che «questo consolidarsi di posizioni interpretative» possa attenuare «l’ansia di denuncia», orientando «l’azione dei pubblici ministeri, tanto più che sono vincolati dalla Cartabia a chiedere l’archiviazione qualora manchino indizi per ottenere la condanna in sede successiva». Non valido, secondo il consigliere di Stato, neanche l’argomento dell’imprecisione descrittiva dopo la riforma del 2020, «con una delle descrizione legislative più tassative e puntuali». E se il solo rischio di essere coinvolti in indagini è paralizzante per l’azione amministrativa, la responsabilità è «di una percezione tanto distorta quanto diffusa del procedimento penale», che in ogni caso «vale per tutti i reati», non solo per questo. Anche perché il vero problema per gli amministratori è «la sospensione dal mandato in ipotesi di condanna di primo grado», che «però non trovo nelle vostre proposte».

Di parere totalmente opposto il presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, secondo cui «è difficile immaginare soluzioni praticabili diverse» dall’abrogazione del reato. «Come tutti sappiamo il legislatore è già intervenuto per contenere la dimensione di norma in bianco di questo reato che ha causato non pochi problemi alla normale vita della pubblica amministrazione – ha sottolineato -, intervenendo soprattutto sull’elemento soggettivo e la tipizzazione delle norme. In realtà l’esperienza ci dimostra che i procedimenti servono più a creare problemi alla pubblica amministrazione che a risolverli e si risolvono quei procedimenti con percentuali di assoluzioni e proscioglimenti altissime».

Caiazza ha provato a sfatare un mito, ovvero che l’abrogazione secca equivarrebbe a una sorta di legittimazione di condotte abusive del pubblico ufficiale. «Non bisogna dimenticare mai che le condotte di abuso sono già severamente punite dalla legislazione – ha evidenziato -. Tutte le condotte contro la pubblica amministrazione si condensano in abusi. Quello di cui stiamo discutendo è una fattispecie residuale, cioè l’idea che la condotta abusiva non integra nessuno di quei reati, nemmeno il traffico di influenze» e che «comunque vada punita. E la risposta deve essere no, perché le condotte di mala amministrazione devono trovare la loro sanzione naturale in sede amministrativa». Ovvero come previsto dalla proposta di Enrico Costa, che punta a trasformare il reato in illecito.

Tratto da Il Dubbio

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