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Se il sanitario no vax infetta, sospensione o licenziamento

Il giuslavorista Giuliano Cazzola: "Per decreto su obbligo tempi lunghi incompatibili con rapidità con cui rischiano di ripetersi i casi di cluster"

Se il sanitario no vax infetta, sospensione o licenziamento

Continuano a verificarsi casi di focolai del contagio all’interno di reparti ospedalieri attribuibili a personale sanitario che ha rifiutato di sottoporsi a vaccinazione. “Le amministrazioni sembrano impotenti nell’affrontare questi eventi e si limitano ad invocare un decreto che introduca un obbligo di legge. Questa è una fuga dalle proprie responsabilità perché già a legislazione vigente le amministrazioni sanitarie (nelle prossime settimane anche le altre aziende quando sarà disponibile il vaccino per i loro dipendenti) dispongono dei poteri necessari per intervenire”. Lo dichiara, ad Adnkronos/Labitalia, il giuslavorista Giuliano Cazzola. “In via precauzionale con la sospensione dal lavoro, non escludendo affatto la possibilità di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo soggettivo (che non è sottoposto al regime di blocco). L’attesa del decreto comporterebbe comunque un tempo incompatibile con la rapidità con cui rischiano di ripetersi i casi di cluster”, aggiunge.

“In presenza di eventi gravi subentra una responsabilità penale, tanto che in uno dei decreti successivi varati l’anno scorso si è dovuta escludere la responsabilità penale nel caso in cui (probatio diabolica) il datore pubblico e privato sia in regola con quanto previsto dai Protocolli di sicurezza tra il governo e le parti sociali. Sarà allora opportuno che questi Protocolli siano aggiornati al più presto per tenere conto della disponibilità di un vaccino. Ma almeno nei confronti degli altri dipendenti e dei pazienti contagiati e dei loro parenti (che già si sono precipitati a presentare esposti alle procure che non vedevano l’ora di aprire dei fascicoli) il datore di lavoro non può giustificarsi girando la sua responsabilità al dipendente No Vax”. Il giuslavorista Giuliano Cazzola interviene così sui casi di sanitario o dipendente che ha rifiutato il vaccino e poi ha contratto il covid contagiando i colleghi.”L’articolo 2087 del codice civile stabilisce che ‘l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’. È una ‘norma di chiusura’ in materia di sicurezza che estende la responsabilità del datore ben oltre quanto previsto, in un momento storico dato, dalla legge”, aggiunge Cazzola. “Il datore ha l’obbligo di seguire e usare tutte le esperienze e le tecniche che si rendono man mano necessarie a tutelare il proprio dipendente. La scoperta di vaccini rientra nelle ‘misure’ con le caratteristiche indicate nella norma che il datore (pubblico e privato) è tenuto ad applicare, a prescindere da ciò che prevede la legge. Il rifiuto del lavoratore non esime il datore da questa responsabilità, in caso di danno grave o di decesso”, aggiunge. Inoltre, precisa Cazzola, “il contagio contratto ‘in occasione di lavoro’ (e quindi anche in itinere) è stato parificato (nel decreto Cura Italia) all’infortunio di cui il datore risponde anche in occasione di rischio fortuito, forza maggiore e colpa non grave del lavoratore”.

“Gli infortuni da Covid-19 non sono casi isolati. Le statistiche confermano che si tratta di una questione seria: su 131mila denunce nel 2020, l’analisi per professione dell’infortunato evidenzia la categoria dei tecnici della salute come quella più coinvolta da contagi con il 38,7% delle denunce (in tre casi su quattro sono donne), l’82,2% delle quali relative a infermieri” dichiara Giuliano Cazzola. “Seguono gli operatori socio-sanitari con il 19,2% (l’80,9% sono donne), i medici con il 9,2% (il 48,0% sono donne), gli operatori socio-assistenziali con il 7,4% (l’85,1% donne) e il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere) con il 4,7% (3 su 4 sono donne). Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto nel 2020 sono state 1.270”, dettaglia Cazzola. “Pur nella provvisorietà dei numeri, questo dato evidenzia un aumento di 181 casi rispetto ai 1.089 registrati nel 2019 (+16,6%). L’incremento è influenzato soprattutto dai decessi avvenuti e protocollati al 31 dicembre 2020 a causa dell’infezione da Covid-19 in ambito lavorativo, che rappresentano circa un terzo dei decessi denunciati all’Inail da inizio anno”, conclude.

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