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Il Conte senza l'oste

L'ostacolo al Conte ter è il premier in persona, che non si fida di Renzi e non intende dimettersi

Il Conte senza l'oste

L’ostacolo al “Conte ter” è Conte in persona, perché, a torto o ragione, il presidente del Consiglio non si fida di quella che ai bei tempi della Prima Repubblica si sarebbe chiamata “crisi pilotata”. Ovvero: i partiti raggiungono un accordo politico, il premier sale al Colle, si dimette, ma ha già, come si era soliti dire, una lista dei ministri in tasca. E dunque riceve il reincarico, si procede col giuramento, e si riparte. Premessa doverosa dell’innocente cronista, costretto a raccontare questa crisi strisciante con una terminologia d’antan, è la richiesta di indulgenza verso il lettore. Con l’aggiunta però che anche questo, in piena pandemia, è il segno dei tempi.

Procediamo allora in questo film della crisi, che ancora non ha un atto fondativo (c’è ancora un Governo in carica sia pur con una tensione attorno). E che, come sempre, suscita la curiosità sulla scena finale anche se, in verità, la proiezione è ancora al minuto dieci del primo tempo. La puntata di oggi racconta che c’è, non potrebbe essere altrimenti, un tentativo di incanalare la discussione per sbrogliare la matassa, affidato alla buona volontà del Pd, in particolare di Goffredo Bettini, particolarmente ascoltato al Nazareno e a palazzo Chigi. Il quale ha suggerito a Renzi, in tempi ragionevolmente brevi (più o meno un giorno), di consegnare un documento attorno a cui discutere le richieste programmatiche e le ipotesi di riassetto per arrivare al “rilancio dell’azione di governo con Conte”. L’idea cioè è di arrivare a una cornice programmatica – più fondi agli investimenti sul Recovery, utilizzo parziale del Mes, delega ai servizi – per poi discutere gli assetti della squadra di governo. Assetti che il Pd più di tanto non vorrebbe stravolgere. Al Nazareno l’idea di un “rafforzamento” prevede l’ingresso del vicesegretario del Pd Andrea Orlando, la cui presenza aumenterebbe il tasso di “politicità” del governo.

È un modo, al tempo stesso, per verificare se Renzi accetta lo schema o se, in fondo in fondo mira al bersaglio grosso (il premier) e tentare un passo in avanti. A sua volta, il leader di Italia Viva ha fatto capire che prima di sedersi al tavolo vuole sapere come è apparecchiato, dove è fissato il perimetro della discussione, a partire dai Servizi, dove non accetterebbe senza discussione la nomina di Gennaro Vecchione, attuale direttore generale del Dis, capitolo delicato perché, per legge, la nomina spetta al premier. E così su tutti gli altri capitoli: il vicepremier ci sarà? E sarà unico, visto che Conte va conteggiato in quota Cinque stelle, oppure viene considerato super partes? Messa così, tra carteggi e documenti, si potrebbe andare avanti all’infinito, e in verità nessuno sembra avere tanta fretta. Innanzitutto il premier, che non fa una “mossa”. Per accelerare i tempi, in fondo, basterebbe chiudere tutti dentro a palazzo Chigi, litigare, discutere, ordinare panini e caffè finché non si arriva a un punto fermo, sia esso un accordo, sia esso una rottura, per poi illustrare l’esito del tutto in una bella conferenza stampa con domande e risposte, e non agli spifferi da reality sussurrati ai cronisti.

Invece le modalità di questa crisi sono abbastanza fantasiose. Nel Palazzo è un florilegio di ipotesi e di smentite di ipotesi, tra ambizioni personali, auspici, disegni di improvvisati Machiavelli per cui, a un certo punto della giornata, fonti vicine a Di Maio fanno sapere che il ministro non ha alcuna intenzione di spostarsi dagli Esteri (vivaddio uno a cui piace quello che fa), confermando però involontariamente che c’è una chiacchiera sui posti. Insomma, è partito il valzer del Conte ter senza che nessuno abbia dichiarato aperte le danze. E non è un dettaglio di poco conto, anzi è il punto. Perché il premier si è detto, a parole e in privato, disponibile a discutere di tutto, anche un rimpasto ma senza dimettersi, nel terrore che, una volta salito al Colle, Renzi possa porre il veto per un suo reincarico e, a quel punto, inizia un nuovo film.

Posizione piuttosto ardita: le dimissioni plurime e coordinate di un non precisato numero di ministri non si sono mai viste neanche nel Pcus su ordine del comitato centrale. Cioè, per fare un esempio: Azzolina, che si è battuta per la riapertura della scuola il 7, si dovrebbe dimettere e non perché la riapertura non ha funzionato, ma perché serve la casella l’8 gennaio. Oppure, se non serve resta in sella anche se, dopo due settimane, si constata che la riapertura è stata un disastro. Senza girarci tanto attorno, questo arzigogolo senza politica significa che Conte non vuole l’operazione ter perché non si fida. E non ha rinunciato all’idea di uno showdown in Aula, atto fondativo di una presunta campagna elettorale che i suoi brillanti comunicatori dicono essere già pronta, con una buona dose di ottimismo.  

Sentimento, la sfiducia, ampiamente contraccambiato da Renzi che, se verrà confermato il Consiglio dei ministri di giovedì, toglierà a sua volta la fiducia a Conte, intesa come ritiro dei ministri, e a quel punto inizia la danza vera. Sintetizzando: il Pd e i Cinque stelle fanno capire che non c’è un’ipotesi alternativa a Conte; per il leader di Italia Viva se Conte non accetta lo schema che prevede le sue dimissioni, una volta ritirati i ministri alle consultazioni il nome dell’attuale premier non sarà più sul tavolo. La sua convinzione è che, a quel punto, ciò che è oggi è coperto, come disponibilità a trovare una soluzione parlamentare, verrà allo scoperto, perché a votare non ci vuole andare nessuno. In fondo, la parola “elezioni” non la nomina più nessuno. Sempre rispolverando i classici della Prima Repubblica, da quel momento la crisi è al buio. Anzi, forse lo è già.

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