E l’illecito diventa penale
P.A., denaro pubblico e controlli inadeguati.
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Non passa giorno che le cronache ci dicano di irregolarità nella gestione del pubblico denaro, negli enti locali, nelle regioni, nei ministeri, laddove fiumi di denaro passano dai bilanci pubblici a quelli delle imprese che realizzano opere e forniscono beni e servizi. Spesso la notizia è “criminale”, nel senso che riguarda i delitti contro la pubblica amministrazione, soprattutto quello di corruzione, antico quanto la gestione del potere. Quando il pubblico ufficiale il quale solennemente aveva giurato di adempiere le funzioni pubbliche a lui demandate “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.), viene meno a quel dovere e” indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altre utilità o ne accetta la promessa” (art. 318 c.p.).
Una varietà di illeciti, dunque, che prendono le mosse da momenti diversi delle complesse procedure di scelta del privato contraente o la realizzazione delle opere, la fornitura di beni e servizi quando, rispettivamente, non realizzate secondo le indicazioni dei capitolati, o il bene o il servizio non corrisponde alle esigenze effettive della Pubblica Amministrazione. Come nel caso di opere realizzate con materiale scadente di cui spesso si è sentito dire, di beni o servizi inutili o pagati troppo.
In tutti questi casi c’è un imprenditore che ha ottenuto un vantaggio, spesso risparmiando sui costi o aggravando l’onere dell’appalto con varianti in corso d’opera ritenute imprevedibili ma “necessarie”, un metodo con il quale è stato possibile recuperare sul prezzo di aggiudicazione quando non remunerativo.
Il fatto è che ovunque si gestisce denaro pubblico ivi si hanno le condizioni perché qualcuno si faccia corrompere, anche per pochi euro, come insegna l’esperienza. Gli imprenditori sanno che spesso le ruote del potere si devono ungere, anche per avere un’autorizzazione dovuta, legittimamente richiesta, per non perdere tempo. Perché il tempo è un costo. I politici si fanno comprare perché la politica costa. Tutto questo è possibile perché la legislazione, primaria e secondaria, è particolarmente complessa, irta di adempimenti a volte inutili ma che accontentano qualche segmento dell’amministrazione, ognuno dei quali “mette bocca”, dà un parere, deve essere sentito, non sempre a ragione. Attenzione, non propongo l’ampliamento dei controlli ma la loro limitazione a passaggi fondamentali delle procedure e, soprattutto, che siano affidati a chi è indipendente, a chi è capace di esercitare le proprie funzioni con competenza e assoluta indipendenza. Le inchieste della magistratura penale mettono in evidenza connivenze varie e disattenzioni. Ad esempio, si dovrebbe incidere anche sui collaudi, che sono una espressione importante di controllo delle attività svolte nella realizzazione di un’opera pubblica o nella fornitura di un bene o di un servizio. Spesso le amministrazioni si servono di consulenti i quali, in veste di liberi professionisti, operano presso o per conto di imprese, una volta collaudatori, altra volta progettisti e direttori dei lavori di una impresa collegata. Anche ove non disponibili a chiudere un occhio, certamente sono indotti a guardare le cose con indulgenza, anche ad evitare di uscire dal “giro”. Ugualmente i dipendenti della stazione appaltante chiamati a far parte di commissioni di collaudo.
Anche i controlli interni sono inadeguati e condizionati dall’ambiente, soprattutto negli enti locali. Quelli esterni sono stati ridotti ed intervengono in fasi del procedimento poco significative o comunque troppo tardi per evitare un danno finanziario. Un tempo c’era il CO.RE.CO., il Comitato Regionale di Controllo, eliminato dopo l’abrogazione dell’art. 130 della Costituzione il quale prevedeva che “un organo della Regione… esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali”. Era ritenuto contrario all’autonomia degli enti locali anche in ragione della natura “politica” delle nomine, decise dalla regione indotta ad esercitare un controllo fiscale solo sugli enti di un “colore politico” diverso. Non sempre ovviamente. Ma a pensar male erano in molti e spesso indovinavano.
Con tutte queste riserve formali i CO.RE.CO. costituivano comunque un qualche presidio di legalità, anche perché minacciavano, e spesso lo facevano, di segnalare fatti di gestione ritenuti di dubbia legittimità alla Corte dei conti, in quanto ipotizzavano anche una responsabilità per danno erariale. Segnalazioni di questo genere erano frequenti e le Procure contabili avviavano accertamenti che, anche quando non individuavano un danno ai bilanci pubblici, davano l’impressione ad amministratori e funzionari che qualcuno vigilava o comunque aveva letto le carte.
Soppressi i CO.RE.CO. non è arrivata più nessuna segnalazione di illecito di rilievo contabile. Non perché siano tutti diventati ligi alle regole, ma semplicemente perché nessuno si prede la briga di denunciare. Gli amministratori sono legati al partito che li protegge, i funzionari sono soggetti a vincoli gerarchici. Gli uni e gli altri “tengono famiglia”. Qualche “eroe” che denuncia rischia di passare un guaio. Il whistleblowing, la segnalazione di illeciti di interesse generale dei quali si è a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro è una copertura ma non sempre induce a scrivere all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). Non si sa mai. In un piccolo ambiente il rischio di essere comunque individuati o sospettati è grande.
La trasparenza tanto evocata, realizzata attraverso la pubblicazione obbligatoria di atti e documenti, non è evidentemente una remora per amministratori disinvolti e funzionari compiacenti. Insomma, i controlli sono sgraditi, nonostante la sollecitazione proveniente dagli organismi internazionali sulle istituzioni superiori di controllo, l’INTOSAI, cui anche l’Italia aderisce. Li gradisce il funzionario solerte, ma la politica denuncia l’appesantimento delle procedure anche se è evidente che non sono i controlli a rallentare l’azione della pubblica amministrazione ma la lunghezza di alcune istruttorie che richiedono l’acquisizione di concerti e di pareri che si prendono del tempo.
Ostili ai controlli sono illustri cattedratici, generalmente consulenti delle amministrazioni, a dire che deresponsabilizzano i funzionari e attuano a forma di cogestione del potere amministrativo non ammissibile. Naturalmente è una visione parziale di chi conosce la P.A. dai libri e non ne vive la realtà che è fatta anche di sinergia tra chi serve, pur in posizione diversa, la legge. La mancanza di una ponderata verifica della legalità capace di impedire che si verifichi l’evento illecito ha come effetto il dilagare dell’intervento della magistratura penale che coinvolge anche condotte che non sono criminali ma illeciti amministrativi non tempestivamente individuati in assenza di controlli ed anche di indagini delle Procure contabili in caso sia ipotizzabile una responsabilità per danno erariale.
Forse sarebbe bene attuare una sorta di preferenza per l’illecito amministrativo-contabile.
Che volete. I politici che non conoscono l’Amministrazione si fanno male da soli. Ma soprattutto fanno male alla politica che agli occhi dei cittadini viene presentata come la casta del malaffare. Non sembra, ma il cattivo uso del pubblico denaro alla lunga colpisce la politica. Non subito, ma alla prima elezione possibile. Come hanno dimostrato tutte le votazioni degli ultimi anni. Sempre meno si recano a votare e chi vota spesso vota contro chi ha governato. E se, invece, conferma il voto turandosi il naso è certo che prima o poi cambierà schieramento.
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