Anno: XXV - Numero 57    
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Dimissioni Zingaretti, comunque vada sarà un fallimento

Due governi subiti e un default strategico su Draghi, il Pd resta squassato anche in caso di ritorno di Zingaretti

Dimissioni Zingaretti, comunque vada sarà un fallimento

Che non lo sapesse nessuno anche se quella parola, “dimissioni”, nei suoi sfoghi, più volte l’aveva pronunciata da settimane, questa è una certezza. Il “me ne vado” di fronte a quello che viveva come un “logoramento”, un “bombardamento del quartier generale” o semplicemente l’amara constatazione di non riuscire più a governare un partito diventato una confederazione di correnti, anche per proprie (non ammesse) responsabilità.

Il come vada a finire è invece tutt’altro che una certezza, alimentata dal modo in cui Nicola Zingaretti le sue dimissioni le ha annunciate, dure ma tutt’altro che “irrevocabili” per ora (“le presenterò”), e dalle parole, un po’ grilline, con cui si è scagliato – come se ne fosse estraneo – contro il partito che ha diretto finora, dove si parla “solo di poltrone” e “primarie”. Mossa che, maliziosamente, si presta ad essere letta come un estremo rilancio, proprio di chi dice “piatto”, per ottenere una nuova legittimazione già alla prossima assemblea del 13 marzo. Per la serie: se volete che resti, come pressoché tutti i capicorrente che finora lo hanno sostenuto chiedono, resto però alle mie condizioni, e addio dibattito.

Chi si dimette, si dimette, come accaduto per Veltroni, Bersani, anche Renzi, e spiega, al contempo, anche come garantire un percorso ordinato verso il dopo, a maggior ragione in un contesto di emergenza come questo e in presenza di quella sfida da far tremare le vene ai polsi richiamata come un’accusa verso un partito sordo e impermeabile di fronte ai drammi della realtà. In questo caso invece le parole indicano una volontà, indignata e rabbiosa, non un fatto, che però all’esterno ha un impatto devastante, perché se questo è il giudizio del segretario figuriamoci cosa può pensare il paese in termini di affidabilità e serietà di un partito così ridotto. Ma lasciano margini affinché i solidi azionisti della sua maggioranza lo impediscano, anche se, in questo caso, l’esito farsesco sarebbe un ulteriore colpo di credibilità, perché le parole hanno un peso e un finale di questo tipo si presterebbe alla lettura di una mossa pensata per rinsaldare la propria di poltrona, con meno disturbatori.

Comunque vada a finire è il segno di una crisi politica vera, non a caso squadernata dopo la nascita del governo Draghi: il Pd, paradossalmente, è il partito che più subisce i contraccolpi del governo, perché era quello che poteva più guidare questa soluzione come esito più sostenibile, avendo nel Dna la famosa responsabilità. E invece ne esce squassato perché si sente orfano del precedente più dei Cinque stelle. Che, sia pur tra mille contraddizioni, hanno quantomeno risolto il problema della leadership. Solo per il Pd il trauma coincide con una crisi strutturale, di leadership e di linea, tappa finale di anni in cui entrambe hanno mostrato una certa fragilità, sin dal momento in cui, prendendo in mano un partito devastato dal renzismo, al minimo storico dal dopoguerra, sull’Aventino della testimonianza, in un’accaldata assemblea Zingaretti urlò il suo “mai con i Cinque stelle”. Diventato due anni dopo un “mai senza Conte”, con la richiesta di voto quando la pandemia rende impossibile votare. In mezzo c’è la rinuncia alle urne quando tutt’altro che impossibili nell’estate del Papeete e, con essa, la rinuncia alla discontinuità: a palazzo Chigi l’uomo che aveva governato con Salvini, nessun vicepremier, l’accettazione del taglio dei parlamentari senza contropartite, i porti rimasti chiusi anche col nuovo ministro, facendo finta di non vedere. Anche in quel caso Zingaretti spiegò che fu costretto a subire la spinta di un partito che, alla sfida aperta, preferì tornare nella confort zone dei ministeri, in nome di una stabilità acritica che, nell’azione quotidiana del governo, si è trasformata in mediazione per la mediazione e immobilismo, anche in piena pandemia.

In fondo le dimissioni, o la minaccia delle dimissioni, consentono di congelare la discussione sulla prospettiva di un partito che, dopo aver passato due anni a incoronare come “punto di riferimento dei progressisti europei” l’uomo che aveva firmato i decreti sicurezza con Salvini, assiste alla fuga dei progressisti fotografata dal sondaggio di Swg verso il nuovo capo dei Cinque stelle. Ruolo che lo stesso ha sempre ricoperto di fatto, ignorando le famose richieste di “svolta”, abusata parola pronunciata dal segretario del Pd senza conseguenza alcuna.

Nel frattempo, ovunque si è votato quell’alleanza non ha mai vinto (Umbria, Liguria, Marche) mentre dove si è vinto (Emilia, Toscana, Campania, Puglia) è accaduto grazie alla capacità di convincere quel popolo di un Movimento in rotta, senza cedere ai rituali del politicismo, alle chiacchiere sull’alleanza “strutturale”, al populismo pandemico di chi, sullo stato di eccezione, ha costruito una narrazione e un potere svincolato dalla realtà. Comunque vada a finire è un punto di non ritorno, anche in caso di ritorno del segretario, perché tutti i nodi irrisolti restano tali

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