Anno: XXV - Numero 72    
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Croce e giustizia.

La libertà religiosa e il principio di laicità dello Stato nelle aule delle scuole pubbliche dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 24414/2021.

Croce e giustizia.

«Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule della scuola. Il nostro è uno stato laico che non ha diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso. […].

I problemi sono tanti e drammatici, nella scuola e altrove, e questo è un problema da nulla.

È vero. Pure a me dispiace che il crocifisso scompaia.

Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato. Ogni imposizione delle autorità è orrenda, per quanto riguarda il crocifisso sulle pareti. Non può essere obbligatorio appenderlo.

Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo. Un insegnante deve poterlo appendere, se lo vuole, e toglierlo se non vuole.

Dovrebbe essere una libera scelta. Sarebbe giusto anche consigliarsi con i bambini. Se uno solo dei bambini lo volesse, dargli ascolto e ubbidire. A un bambino che desidera un crocefisso appeso al muro, nella sua classe, bisogna ubbidire.

Il crocifisso in classe non può essere altro che l’espressione di un desiderio. I desideri, quando sono innocenti, vanno rispettati.

L’ora di religione è una prepotenza politica. È una lezione. Vi si spendono delle parole. La scuola è di tutti, cattolici e non cattolici. Perché vi si deve insegnare la religione cattolica?

Ma il crocifisso non insegna nulla. Tace. L’ora di religione genera una discriminazione fra cattolici e non cattolici, fra quelli che restano nella classe in quell’ora e quelli che si alzano e se ne vanno.

Ma il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente.

La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo?

Sono quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. O vogliamo forse smettere di dire così?

Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati […].

Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. Lacroce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.

Il crocifisso fa parte della storia del mondo.

Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l’idea di Dio ma conserva l’idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine.

È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini […].

Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici, portiamo o porteremo il peso, di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.

Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente. Ha detto “ama il prossimo come te stesso”. Erano parole già scritte nell’Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto.

Sono il contrario di tutte le guerre […]. Sono l’esatto contrario del modo in cui oggi siamo e viviamo. Ci pensiamo sempre, trovando esattamente difficile amare noi stessi e amare il prossimo più difficile ancora, o anzi forse completamente impossibile, e tuttavia sentendo che là è la chiave di tutto.

Il crocifisso queste parole non le evoca, perché siamo abituati a veder quel piccolo segno appeso, e tante volte ci sembra non altro che una parte del muro. Ma se ci viene di pensare che a dirle è stato Cristo, ci dispiace troppo che debba sparire dal muro quel piccolo segno […].

Il crocifisso fa parte della storia del mondo. I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto, molti. Oltre ai credenti e non credenti, ai cattolici falsi e veri, esistono anche quelli che credono qualche volta sì e qualche volta no. Essi sanno bene una cosa sola, che il credere, e il non credere vanno e vengono come le onde del mare. Hanno le idee, in genere, piuttosto confuse e incerte. Soffrono di cose di cui nessuno soffre.

Amano magari il crocifisso e non sanno perché. Amano vederlo sulla parete. Certe volte non credono a nulla.

È tolleranza consentire a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri.».

Il 22 marzo 1988 Natalia Ginzburg, nata Levi, la magnifica autrice di Lessico famigliare, ebrea e non credente, deputata della Sinistra Indipendente, scrisse per L’Unità (organo ufficiale del P.C.I.) questo articolo dal titolo «Non togliete quel crocifisso: è il segno del dolore umano. Quella croce rappresenta tutti», che oggi, alla luce della sentenza 9 settembre 2021, n. 24414, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, qui annotata, merita di essere riletto almeno nei passi essenziali, sopra riportati.

L’intervento della scrittrice si inseriva nell’acceso dibattito nato dall’iniziativa di Maria Vittoria Migliano, docente di italiano e storia in un Istituto tecnico-industriale di Cuneo, che aveva diffidato il preside a rimuovere il crocifisso dalle pareti di tutte le aule dove fosse esposto, in ottemperanza alla lettera e allo spirito dell’Accordo tra l’Italia e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, concernente la revisione del Concordato, (ratificato con l. 25 marzo 1985, n. 121), che non considerava più quella cattolica, apostolica, romana la sola religione dello Stato (così disponeva l’art. 1 dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, in continuità con l’art. 1 dello Statuto del Regno del 4 marzo 1848),arrivando a sospendere, per protesta, la sua attività didattica, tanto da essere sottoposta a procedimento disciplinare e inquisita dalla magistratura per interruzione di pubblico servizio.

Nel dibattito politico, culturale e religioso al quale si è fatto cenno sopra, che si è sviluppato (con toni alterni, scandito anche da importanti iniziative giudiziarie) sino ai nostri giorni (e irrimediabilmente sarà rinfocolato dall’ultima sentenza del S.C.) la posizione di tolleranza religiosa espressa  da Natalia Ginzburg è stata fatta oggetto di pesanti critiche, talvolta ingenerose, come quelle di Sergio Luzzatto (Il crocifisso di Stato, Torino, Einaudi, 2011, in particolare, par. 2, Il vangelo secondo Natalia, pp. 11 e ss.), secondo il quale «Senza il crocifisso negli edifici statali l’Italia non sarebbe più la stessa: sarebbe più giusta, più seria, migliore.».

In realtà, come ha riconosciuto la stessa Migliano in una intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale il 31 ottobre 2003: «Fu una reazione alle ossessioni cattoliche per l’ora di religione a scuola. Fino a quel momento il crocifisso, a noi non credenti, non aveva dato fastidio, ma di fronte a quell’offensiva era necessaria una presa di coscienza sulla laicità dello Stato, affermata dalla nostra Costituzione.». Prova ne sia il fatto che nell’aula dove teneva le lezioni non c’era nemmeno il crocifisso. Per lei ed altri atei e agnostici si trattava di una questione di principio.

Una piccola digressione per precisare che con il nuovo Accordo con la Santa Sede, pur nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, la Repubblica Italiana si impegna a continuare ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado, senza che la scelta espressa dagli interessati possa dare luogo ad alcuna discriminazione (art. 9, comma 2).

 Alla base di questa prerogativa c’è l’affermazione di principio (che si legge nell’incipit dell’art. 9, comma 2 cit.) del riconoscimento da parte della Repubblica Italiana del valore della cultura religiosa e che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano. Espressione, quest’ultima, che ritroviamo, seppure con parole e toni diversi, in tutti i pronunciamenti giudiziari, compresa l’ultima sentenza.

I due aspetti, presenza del crocifisso e insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, vengono spesso confusi, anche in considerazione dei precedenti assetti scolastici e delle novità introdotte dall’Accordo del 1984 (ancora oggi non del tutto sedimentate).

Sarà il Consiglio di Stato, Sez. II, interpellato alla luce del mutato quadro normativo, che, con il parere n. 63 del 27 aprile 1988, affermerà che si tratta di questioni diverse e distinte, precisando che di crocifisso non si parla nei Patti Lateranensi, tanto meno nell’Accordo del 1984, che, deputato a revisionare i precedenti patti, nulla di diverso e innovativo rispetto a questi avrebbe potuto introdurre.

Le disposizioni che riguardano l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche  si trovano altrove, come vedremo più avanti, ma merita richiamare, intanto, l’affermazione di principio che si legge nella premessa di questo Parere sopra citato: «Il Crocifisso o, più semplicemente, la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da una specifica confessione religiosa.».

Il crocifisso sul muro non è solo un problema di storia (una storia da conoscere e da raddrizzare, per usare le parole di Sergio Luzzatto), ma è anche (e soprattutto, in questa sede) un problema di diritto e di diritti; e a questo problema dobbiamo, ora, volgere la nostra attenzione.

La controversia ora decisa dalla Corte di Cassazione trae origine dal procedimento disciplinare promosso nei confronti di un docente di ruolo di materie letterarie che durante le sue lezioni rimuoveva sistematicamente, in autotutela, il crocifisso, invocando la libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, nonostante la deliberazione dell’assemblea  degli studenti della classe, che, in senso contrario, si era espressa, a maggioranza, per il mantenimento dell’affissione del crocifisso nell’aula durante lo svolgimento di tutte le lezioni. Questa deliberazione assembleare era stata recepita dal dirigente scolastico, prima con una circolare, con la quale ribadiva a tutti i docenti il dovere di rispettare la volontà espressa dagli studenti, poi con un ordine di servizio indirizzato al docente dissenziente, diffidandolo «dal continuare in questa rimozione che sta creando agli studenti  frustrazione, incertezza e preoccupazione», in ossequio alla disposizione impartita a tutti i docenti  sulla collocazione stabile del crocifisso sulla parete.

Per l’inosservanza di questo ordine di servizio, ma anche per le frasi gravemente ingiuriose e volgari proferite  nei confronti del dirigente scolastico, il docente dissidente (previo parere del Consiglio di disciplina per il personale docente ex art. 503, D.lgs. 16 aprile 1994, n. 297) era stato sanzionato dall’Ufficio Scolastico Provinciale con la sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, essendo venuto meno ai doveri, alla responsabilità e alla correttezza cui devono essere sempre improntate l’azione e la condotta di un docente, considerata la sua funzione educativa e formativa.

La contestazione in sede giudiziaria di questi provvedimenti si basa, in estrema sintesi, sulla loro natura discriminatoria ai danni dei docenti che non si riconoscono nel crocifisso e sulla illegittimità della sanzione disciplinare che aveva colpito il docente dissidente che rivendicava di aver legittimamente esercitato il suo potere di autotutela in relazione ai diritti fondamentali della libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa.

Dopo le sentenze di merito sfavorevoli al docente (del Tribunale di Terni, 29 marzo 2013, n. 122, e della Corte di Appello di Perugia, 19 dicembre 2014, n. 165, sostanzialmente condivise dal S.C. solo in punto di insussistenza della denunciata discriminazione), la controversia è approdata in Cassazione, che, con l’ordinanza interlocutoria n. 19618 del 18 settembre 2020, rilevata una questione di massima di particolare importanza, l’ha rimessa al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, che l’ha disposta.

Nella decisione annotata (che si segnala anche per la chiara esposizione dei fatti, storici e processuali, e la dovizia di particolari utili alla migliore comprensione della vicenda, virtù sempre più rara anche nella giurisprudenza di legittimità) sono esposti, in maniera articolata, i motivi del ricorso per cassazione, alla cui narrazione si rinvia, limitandoci, in questa sede, ad evidenziare che il ricorrente censura la sentenza impugnata: con il  primo motivo del ricorso (violazione dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 216 del 9 luglio 2003, ma anche dell’art. 2087 c.c. sotto il profilo concorrente della mancata tutela della personalità morale del dipendente), perché non ha ritenuto sussistente la discriminazione per il fatto che la disposizione impartita dal dirigente scolastico, solo apparentemente neutra, aveva determinato una situazione di svantaggio per gli insegnati non aderenti alla religione cattolica ( a questo motivo è collegato il quinto, avente ad oggetto la conseguente domanda di risarcimento dei danni); con il terzo motivo del ricorso, perché ha disatteso il principio costituzionale supremo di laicità dello Stato (violato unitamente agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20), che impone equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni, nel caso concreto  leso dalla preferenza accordata ad un unico simbolo, venendo così privilegiata una religione rispetto ad un’altra; con il quarto motivo del ricorso (violazione degli artt. 19 e 33, Cost.; 9, 14 e 53 della Cedu e art. 2, Protocollo n. 1), perché il crocifisso appeso sulla parete dell’aula delle sue lezioni  imponeva al docente di «vedere la propria voce coperta o autorata da un simbolo confessionale posto sopra di sé.».

Nell’ordinanza interlocutoria la questione di massima di particolare importanza viene correttamente individuata nella necessità di addivenire ad una «pronuncia sul bilanciamento, in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati rispettivamente dal D.lgs. n. 297 del 1994, artt. 1 e 2 che, garantendo, da un lato, la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1) e, dall’altro, “il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni” (art. 2), portano ad interrogarsi sui modi di risoluzione di un eventuale conflitto e sulla possibilità di far prevalere l’una o l’altra libertà nei casi in cui le stesse si pongano in contrasto fra loro», nella consapevolezza della complessità dei temi di carattere più generale che sono evocati, anche alla luce della giurisprudenza, interna e sovranazionale «in relazione al significato del simbolo, al principio di laicità dello Stato, alla tutela della libertà religiosa, al carattere discriminatorio di atti o comportamenti del datore di lavoro che, in ragione del credo, pongano un lavoratore in posizione di svantaggio rispetto agli altri.».

Sono molti gli aspetti di discordanza tra la decisione delle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione che sembra prospettare la soluzione di una “laicità” rigida, più vicino al modello francese, che afferma il principio della netta incompatibilità con la religione, qualunque essa sia.

La Sezione Lavoro, inoltre (e anche su questo versante non viene seguita dalle Sezioni Unite), prospetta l’ipotesi della discriminazione indiretta, non potendo l’autorità scolastica, e quindi lo Stato, operare discriminazioni fra le diverse fedi e fra credenti e non credenti, che di fatto, nel caso di specie, si tradurrebbe nell’arretramento della volontà degli studenti e della loro libertà religiosa positiva di fronte alla libertà religiosa negativa del docente dissidente, arrivando a chiedersi «se, a fronte della volontà manifestata dalla maggioranza degli alunni e dell’opposta esigenza resa esplicita dal docente, l’esposizione del simbolo fosse comunque necessaria o se non si potesse realizzare una mediazione fra le libertà in conflitto, consentendo, in nome del pluralismo, proprio quella condotta di rimozione momentanea del simbolo della cui legittimità qui si discute.».

In sintonia (tranne che sulla lettura e sulla applicazione delle disposizioni regolamentari scolastiche pre-costituzionali) con la requisitoria del P.G., e le conclusioni in essa rassegnate, è la decisione delle S.U. che hanno affermato i seguenti principi di diritto:

«- In base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita, nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso.

– L’art. 118 del regio decreto n. 965 del 1924, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve essere interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione, nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un “ragionevole accomodamento” tra eventuali posizioni difformi.

– È illegittima la circolare del dirigente scolastico che, nel richiamare tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, espressa a maggioranza in una assemblea, di vedere esposto il crocifisso nella loro aula, non ricerchi un ragionevole accomodamento con la posizione manifestata dal docente dissenziente.

 – L’illegittimità della circolare determina l’invalidità della sanzione disciplinare inflitta al docente dissenziente per avere egli, contravvenendo all’ordine di servizio contenuto nella circolare, rimosso il crocifisso dalla parete dell’aula all’inizio delle sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto alla fine delle medesime.

 – Tale circolare, peraltro, non integra una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente, e non determina pertanto le conseguenze di natura risarcitoria previste dalla legislazione antidiscriminatoria, perché, recependo la volontà degli studenti in ordine alla presenza del crocifisso, il dirigente scolastico non ha connotato in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento, né ha condizionato la libertà di espressione culturale del docente dissenziente.».

In questo modo le Sezioni Unite hanno adempiuto, in maniera più che soddisfacente, alla funzione che di esse è propria, la nomofilachia, richiamando la <<prudenza mite>> che caratterizza il mestiere del giudice, non solo di legittimità: «La nomofilachia delle Sezioni Unite è un farsi, un divenire che si avvale dell’apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell’opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero.».

In assenza di un quadro normativo chiaro e pur in presenza di molte sentenze interne, anche costituzionali, e sovranazionali, emerge, però, ad avviso di chi scrive, la solitudine delle Sezioni Unite (a dispetto di quanto viene affermato) nell’assumere la decisione, densa di significati e conseguenze, di questa particolare controversia (intessuta nella storia e nella cultura, non solo religiosa, del nostro paese) che è di tutta evidenza compromissoria (senza con ciò voler attribuire a questa aggettivazione una connotazione negativa, anzi), apprezzabile (con alcune riserve di cui diremo più avanti) per il fatto che viene indicato come necessario (non solo raccomandato) il  metodo del dialogo per risolvere i conflitti tra i diritti fondamentali della libertà religiosa, positiva e negativa, di pari dignità, nel contesto scolastico, in uno Stato laico, non più confessionale, anche se il leale collaborazione con la Chiesa Cattolica.

Come giustamente osserva il S.C. la questione sottoposta alla sua attenzione è nuova sotto due aspetti fondamentali: la volontà espressa dagli studenti, sebbene a maggioranza, a favore dell’affissione del crocifisso nell’aula durante tutte le lezioni, quale esercizio della loro libertà religiosa positiva; gli effetti simbolici del crocifisso sul docente non credente e il rispetto della sua libertà religiosa negativa.

Anche per quello che diremo più avanti con riferimento alla comunità scolastica, c’è un altro aspetto, non secondario, che va preso in considerazione: gli effetti simbolici del crocifisso sugli altri studenti e docenti e in generale su tutti i componenti della comunità scolastica, non credenti o credenti di religioni diverse da quella cattolica.

La prima questione da affrontare e risolvere è quella relativa alla vigenza e rilevanza disposizioni regolamentari che fissano l’obbligo dell’affissione del crocifisso nelle aule, quale «arredo scolastico» nelle scuole elementari (art. 119, r. d. 26 aprile 1928, n. 1297, e tabella C allegata) e nelle scuole medie (art. 118, r. d. 30 aprile 1924, n. 965), non solo quelle inferiori, come erroneamente ritenuto dalla sentenza della Corte di Appello e dall’ordinanza interlocutoria, ma anche quelle superiori, per come si è evoluto il nostro ordinamento scolastico, con riferimento all’istruzione media (nella sentenza delle S.U., ma anche nella requisitoria del P.G. questo aspetto è spiegato molto bene).

Nessun obbligo è previsto per le scuole d’infanzia e le università.

Nel nostro caso di specie, che riguarda un istituto tecnico-professionale, è applicabile l’art. 118 cit.

Il quadro normativo così rappresentato è stato considerato debole, per l’assenza di una legge, ma è una considerazione errata, ad avviso di chi scrive, perché nel 1961 è intervenuta la l. n. 641 del 28 luglio 1967 (Nuove norme per l’edilizia scolastica e universitaria e piano finanziario dell’intervento per il quinquennio 1967-1971), che all’art. 30 (il cui testo è stato  sostituito  dall’art. 6, l. 17 febbraio 1968, n. 106, ma non nel primo cpv del c.1, che è lo stesso di quello precedente) prevede l’estensione degli artt. 119, 120 e 121 del regolamento approvato con r. d. n. 1297/1928 all’arredamento delle scuole medie, in buona sostanza applicato alle scuole di ogni ordine e grado.

Quasi nell’immediatezza è intervenuta una Circolare esplicativa del Ministero dell’Istruzione 19 ottobre 1967, n. 367/2527 (Edilizia e arredamento di scuole dell’obbligo) che precisa (forse a scanso di equivoci, per non considerare obbligatoria anche l’affissione del ritratto del Re, considerato il richiamo tout court del testo dell’art. 119 cit. – è questa la supposizione di qualche studioso che ha un certo fondamento) che: «…. l’arredamento di un’aula è cosi costituito: Scuole elementari: a) Crocifisso; b) ritratto del Presidente della Repubblica; c) tavolini e seggiole per gli alunni; d)tavolino e scrivania con due poltroncine per l’insegnante; […] Scuole medie:1) Aule normali: a) Crocifisso; b) ritratto del Presidente della Repubblica; c) tavolini e seggiole per gli alunni; d) tavolino o scrivania con due poltroncine per l’insegnante; […]2) Locali per le osservazioni ed elementi di scienze naturali, applicazioni tecniche ed educazione artistica: a) Crocifisso; b) ritratto del Presidente della Repubblica; c) banchi-cattedra per l’insegnante con due seggiole; d) banchi per gli alunni; […].».

La vigenza di questa legge avrebbe potuto portare i giudici di legittimità a sollevare una q.l.c. in parte qua, ove non ritenuta sufficiente la sua interpretazione costituzionalmente orientata, tenuto conto che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 289 del 13 dicembre 2004, aveva dichiarato manifestamente inammissibile la q.l.c. sollevata  dal Tar del Veneto (con la sua ordinanza del 14 gennaio 2004, pronunciata nel  contenzioso amministrativo promosso dalla Signora Soile Lautsi, in proprio e nell’interesse dei due figli minori, lamentando la illegittimità della deliberazione del Consiglio di Istituto che aveva respinto la sua proposta di escludere  tutte le immagini  e i simboli di carattere religioso negli ambienti scolastici, in ossequio al principio di laicità dello Stato, impugnata per violazione degli artt. 3, 19 e 97, Cost., e dell’art. 9, Cedu). Innanzitutto, perché erroneamente il giudice rimettente aveva considerato le norme regolamentari pre-costituzionali salvate dall’art. 676 del T.U. del 1994, quando invece la clausola di salvezza riguarda solo ed esclusivamente le disposizioni legislative (riunite e coordinate in conformità alla delega) non incluse nel T.U. e non incompatibili con esso. In secondo luogo, perché il riferimento del giudice rimettente agli artt. 159 e 190 del T.U del 1994 si appalesava come il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni legislative di una q.l.c. in realtà concernente disposizioni regolamentari, prive di forza di legge e quindi non soggette all’invocato sindacato di legittimità di legittimità costituzionale, tanto meno di intervento interpretativo.

Devono essere, poi, considerati due provvedimenti del Ministero della Istruzione, della Università e della Ricerca, che ribadiscono l’obbligo dell’affissione derivante dall’applicazione delle disposizioni regolamentari, ritenute vigenti nonostante la revisione concordataria, entrambi del 3 ottobre 2002: la Direttiva Prot. n. 2666, che al punto 1 prevede che il competente Dipartimento del Ministero si attivi affinché sia assicurata da parte dei dirigenti scolastici l’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche; la Nota Prot. n. 2667 che ribadisce la vigenza delle disposizioni regolamentari pre-costituzionali (richiamando, in proposito, il Parere del Consiglio di Stato n. 63 del 1988 e le sentenze penali della Cassazione del 1998 e del 2000), e dispone che «sia data attuazione alle norme sopra menzionate attraverso l’adozione delle iniziative idonee ad assicurare la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche.».

Se a queste informazioni aggiungiamo quello che giustamente rileva il S.C. in ordine ai provvedimenti taglia-leggi del 2008-2009, che inizialmente comprendevano il r.d. n. 965/1924, poi espunto dall’elenco dei testi abrogati, e quindi fatto rivivere (in un groviglio di norme – tutto italiano – ben spiegato nella motivazione della sentenza annotata: l’abrogazione del r.d. n. 965/1924 è stata prevista dall’art. 24 e dal n. 224 dell’All. A del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv., con mod., dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, ma è poi venuta meno a seguito della soppressione del cit. n. 224 ad opera dell’art. 3, comma 1-bis del d.l. 22 dicembre 2008, n. 200, comma aggiunto in sede di conversione dalla l. 18 febbraio 2009, n. 9) è giusto affermare la vigenza dello stesso.

Secondo il P.G. la disposizione regolamentare deve essere disapplicata, perché illegittima «per contrasto con i principi costituzionali di laicità dello Stato e di separazione tra la sfera civile e quella religiosa», che risultano anche dalla revisione del Concordato del 1994. È una posizione dalla quale è davvero difficile dissentire; ma, se la nostra ricostruzione è corretta, deve essere valutata, nella sua giusta rilevanza, anche la l. n. 641 del 1967.

È utile, a questo punto, soffermarsi sul principio di laicità del nostro ordinamento, per come è stato rappresentato dalla Corte Costituzionale in alcune pronunce significative, che passiamo in breve rassegna.

Nel 1989 (sentenza n. 203 dell’11 aprile 1989), pronunciandosi sull’insegnamento della religione cattolica dopo la revisione concordataria, la Corte Costituzionale ha precisato che la nostra laicità non è indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, nel regime di pluralismo confessionale e culturale. In questa prospettiva si può parlare di neutralità attiva o laicità positiva che impegna le istituzioni pubbliche a tutelare e promuovere il pluralismo religioso.

In questa direzione si muove anche la sentenza n. 440 del 18 ottobre 1995, che limitandosi a dichiarare incostituzionale l’art. 724, comma 1, c.p., sul reato di bestemmia, nella parte in cui considera simboli e persone venerati nella religione dello Stato, interviene per riaffermare il pluralismo religioso, rilevando una violazione del principio di uguaglianza nella differenziazione della tutela penale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata.

I principi affermati nella sentenza n. 203/1989 sono ribaditi nella pronuncia n. 67 del 7 aprile 2017, che considera il pluralismo religioso a sostegno della massima espansione della libertà di tutti secondo criteri di imparzialità.

Giungere alla conclusione ipotizzata dal P.G. non avrebbe certamente risolto il problema posto dalla controversia in esame, ma avrebbe potuto portare le Sezioni Unite ad affermare un principio più netto in punto di laicità dello Stato, che, per quanto ampiamente e in maniera chiara, dichiarato, rimane comunque sfumato, perché la presenza del crocifisso (e degli altri simboli religiosi) viene sostanzialmente mantenuta come legittima e possibile, pur con i limiti indicati, in base anche alla disposizione regolamentare considerata.

È stata, quindi, scelta dalle S.U. l’opzione della interpretazione della disposizione regolamentare citata in senso conforme alla Costituzione e alle leggi che la attuano, nel quadro del pluralismo religioso, quale espressione di un più ampio pluralismo dei valori.

Considerato illegittimo l’obbligo di affissione, quest’ultima è legittima solo se attuata in autonomia nel contesto scolastico sulla base di un metodo “mite” che si faccia carico di tutte le esigenze in tensione, secondo il principio base della sussidiarietà orizzontale che trova spazio e riconoscimento nell’art. 118, Cost.

La presenza o meno del crocifisso nelle scuole rientra, quindi, nell’ambito dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche; a tal proposito viene evocata la comunità scolastica, che secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 297/1994 interagisce con la più vasta comunità sociale e civica. Dalla lettura degli articoli precedenti del T.U. emerge il carattere relazionale e dialettico dell’insegnante e degli studenti; mentre la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1, comma 1) si coniuga con il fine di detta libertà diretta a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali differenti, la piena formazione della personalità degli alunni (art. 1, comma 2). Il tutto nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni (art. 2, comma 1), con un rapporto di prevalenza rispetto alla posizione assunta dal docente e ai suoi diritti, che potrebbe essere oggetto di sindacato di legittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

Non meno importante è il regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche (approvato con d.p.r. n. 275 dell’8 marzo 1999), quale garanzia della libertà di insegnamento e di pluralismo culturale (art. 1, comma 2).

Va aggiunto, peraltro, che nel CCNL  19 aprile 2018 relativo al personale del comparto istruzione e ricerca, in applicazione di quanto disposto dalla norma sopra richiamata del T.U del 1994, l’art. 24 (Comunità educante) il cui testo merita qui riportare: «1. Ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, la scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i princìpi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’ONU il 20 novembre 1989, e con i princìpi generali dell’ordinamento italiano. – 2. Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs. n. 297/1994.».

Ovviamente non è compito di un contratto collettivo, che disciplina i rapporti di lavoro e le relazioni sindacali, stabilire le competenze e le procedure di dialogo e decisione della comunità scolastica, che, a questo punto, avrebbero bisogno di una normativa di dettaglio per meglio procedimentalizzare ciò che non fa parte dell’ambito di operatività degli organi collegiali.

A quanto consta è la prima volta che nel contenzioso di lavoro viene evocata, in tutta la sua rilevanza positiva (condivisa da chi scrive), la comunità scolastica.

Ora, con tutto il rispetto per la soluzione individuata dalla S.C. (la cui decisione, per molti aspetti, non era facile), il concetto di comunità scolastica può rivelarsi, almeno nella materia che ci occupa, troppo generico; e troppo ampio è l’ambito della comunità (della quale fanno parte gli studenti, i docenti, gli organi dirigenti, il personale amministrativo e non docente di ogni livello) per poter consentire un’efficace e tempestiva decisione su questioni dirimenti, di carattere prettamente ideologico (qui si parla di religione, ma i temi che comportano un conflitto possono essere i più diversi, anche culturali, in senso ampio, politici, filosofici), dai contorni ben delimitati nella sfera di azione del dirigente scolastico che dopo aver promosso il dialogo e il confronto, in difetto di accordo e di una soluzione condivisa, fatta una sintesi delle diverse posizioni, deve prendere una decisione, essenzialmente autoritativa.

Senza dire che non è chiaro l’ambito di riferimento dell’esperimento della mediazione e del possibile accordo da perseguire: l’istituto nel suo complesso (che è fatto, anche di diverse aule e ambienti comuni) o la singola classe (come nel caso di specie) che non è monolitica, nemmeno durante lo stesso anno scolastico (basti pensare alla flessibilità dei docenti, per motivi diversi, e talvolta anche degli studenti).

Comunque sia, in perfetta sintonia con la legislazione scolastica viene evocato il metodo degli accomodamenti ragionevoli da ricercare con il più ampio consenso possibile, per realizzare un equo contemperamento dei diritti costituzionali fondamentali e un concreto bilanciamento degli intessi in gioco che sono in conflitto. Il metodo e il modello di una comunità dialogante che ricerca insieme la composizione di diritti uguali e contrari, che riesca ad esprimere una soluzione di mediazione e di compromesso.

Scrive la Corte: «Là dove si leggeva imposizione autoritativa della presenza del crocifisso, è ora da intendere facoltatività della collocazione, riportata ad una richiesta che proviene dal basso, dagli studenti. Là dove la disposizione regolamentare era caratterizzata da esclusività (solo quel simbolo), c’è ora spazio per una interpretazione estensiva in direzione della pluralità dei simboli, ispirata ad un universalismo concreto, fondato empiricamente e democraticamente responsivo rispetto alla mutata composizione etnica e quindi anche religiosa della popolazione».

Tuttavia per quanto suggestivo, il metodo indicato, pur essendo apprezzabile lo sforzo e l’impegno interpretativo, appare più adeguato a risolvere problemi tecnici e organizzativi di adattamento in una istituzione pubblica o privata e non invece in un caso, come quello che ci occupa, di differenti convinzioni ideologiche, religiose, morali, politiche, in una convivenza pacifica e non conflittuale.

Nella nostra materia abbiamo l’esempio degli accomodamenti ragionevoli che delimitano il legittimo esercizio del potere datoriale di recedere dal rapporto di lavoro con un dipendente disabile, per consentire, a condizioni date, il mantenimento del posto di lavoro. In questa prospettiva si può citare l’arresto della Cassazione 9 marzo 2021, n. 6497 ( con ampi riferimenti normativi e giurisprudenziali ai quali si rinvia), che conclusivamente afferma che «potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale”», la cui misura è rappresentata dal principio generale di buona fede.

Ma si tratta di una fattispecie assai diversa da quella che qui ci occupa.

Oltretutto questo metodo può rivelarsi, in concreto, poco efficace, anche perché in questa materia deve essere garantita anche la libertà del singolo soggetto dissidente. L’efficace immagine dei diritti affermati in modo assoluto che divengono “tiranni”, occorrendo perciò procedere al loro reciproco bilanciamento (evocata anche dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 85 del 9 aprile 2013 sul caso Ilva), non sembra adatta ai diritti di libertà dell’individuo.

E tra le soluzioni possibili proposte, quale sarebbe quella giusta: quella della parete nuda, bianca (da alcuni auspicabile perché neutra, ma criticata da altri perché sarebbe neutra solo in apparenza, in quando consentirebbe una preferenza per i non credenti) o la parete barocca, con l’esposizione di tutti i simboli religiosi della rispettiva credenza dei componenti della comunità scolastica (che, comunque, farebbe torto a chi è ateo)? Oppure il simbolo religioso esposto sulle pareti laterali e non su quella centrale alle spalle del docente?

Senza dire che ogni soluzione creerebbe scontento.

Lo dimostra, dal lato degli studenti e dei loro genitori, l’apologo (raccontato da Joseph H.H. Weiler nell’esposizione della sua difesa, a sostegno della posizione di alcuni Stati intervenuti nel processo Lautsi II) dei due amici, Marco, che in casa ha il crocifisso, e Leonardo, che non lo ha, che si interpellano a vicenda, manifestando stupore sulla presenza o sull’assenza del crocifisso nelle loro case, lamentandosi, anche, con i rispettivi genitori, credenti e non credenti, delle differenti situazioni, per le quali non trovano plausibili giustificazioni, nonostante le rassicurazioni avute; due amici che poi vengono a trovarsi nella stessa situazione quando, nella classe che frequentano insieme, trovano o non trovano il crocifisso.

Le Sezioni Unite avevano, sostanzialmente, due strade davanti, pur nella differenza dei casi: adottare una pronuncia come quella della Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso Lautsi, oppure confermare l’orientamento espresso dalla stessa Cassazione nella sentenza penale di assoluzione dello scrutatore.

Dopo la sentenza sfavorevole n. 556 del 13 febbraio 2006 del Consiglio di Stato la Signora Soile Lautsi (a definizione del contenzioso amministrativo che abbiamo citato a proposito del Tar del Veneto, che, dopo aver sollevato la q.l.c. dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte Costituzionale, decidendo nel merito aveva rigettato le domande della ricorrente) aveva fatto ricorso (n. 30814/2006)  alla Cedu che, con la sentenza della Seconda Sezione del 3 novembre 2009, aveva riconosciuto la violazione dell’art. 2, Protocollo 1, esaminato congiuntamente all’art. 9, della Cedu, affermando che l’esposizione  del crocifisso nelle aule scolastiche limita il diritto  dei genitori di educare i figli e che deve essere assicurata la neutralità nell’esercizio della funzione pubblica, in particolare nel campo dell’istruzione.

Viene, quindi, disattesa, in prima battuta, dalla Cedu l’interpretazione data dal supremo organo italiano di giustizia amministrativa che aveva enfatizzato il principio di laicità aperta dello Stato italiano rispetto a quello di laicità rigida della Francia affermato dall’art. 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958 (improntata ai principi della Dichiarazione del 1789), che la proclama «repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale», affermando che, fermo restando il significato religioso del crocifisso di alto valore simbolico per i cattolici, «per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato  non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnata mente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine  costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni. Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana.».

Su ricorso del Governo Italiano, la causa è stata rinviata alla  Grande Camera, che, con la sentenza  del 18 marzo 2011, decidendo in contrario avviso rispetto al precedente pronunciamento, ha escluso la violazione delle norme convenzionali e ha affermato il principio per il quale mantenere l’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche rientra pienamente nelle facoltà e nei limiti dello Stato italiano, in considerazione del carattere passivo del simbolo religioso, del margine di apprezzamento  di cui godono gli Stati in materia e del carattere pluralista della scuola pubblica in Italia.

In quella occasione Padre Federico Lombardi, in qualità di Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, rilasciò la seguente dichiarazione: «Si riconosce […], ad un livello giuridico autorevolissimo ed internazionale, che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale. Si riconosce inoltre che, secondo il principio di sussidiarietà, è doveroso garantire ad ogni Paese un margine di apprezzamento quanto al valore dei simboli religiosi nella propria storia culturale e identità nazionale, e quanto al luogo della loro esposizione […]. In caso contrario, in nome della libertà religiosa si tenderebbe paradossalmente invece a limitare o persino a negare questa libertà, finendo per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione. E così facendo si violerebbe la libertà stessa, oscurando le specifiche e legittime identità. La Corte dice quindi che l’esposizione del crocifisso non è indottrinamento, ma espressione dell’identità culturale e religiosa dei Paesi di tradizione cristiana. La nuova sentenza della Grande Chambre è benvenuta anche perché contribuisce a ristabilire la fiducia nella Corte Europea dei diritti dell’uomo da parte di una gran parte degli europei, convinti e consapevoli del ruolo determinante dei valori cristiani nella loro propria storia, ma anche nella costruzione unitaria europea e nella sua cultura di diritto e di libertà».

Più complesso è il caso relativo alla presenza del crocifisso nelle sezioni elettorali (che, quasi sempre, sono collocate in aule scolastiche).

Il Prof. Marcello Montagnana (per la cronaca: nipote di Palmiro Togliatti, per parte della moglie, Rita Montagnana, partigiana ed esponente di spicco del Pci, e coniuge della Prof. Maria Vittoria Migliano della quale abbiamo parlato sopra),pur in assenza  del crocifisso esposto nella sezione elettorale dell’Ospedale Santa Croce di Cuneo alla quale era stato designato dal Comune della stessa città per le elezioni parlamentari del 27 marzo 1994, il giorno precedente, al momento dell’insediamento del seggio, aveva polemicamente contestato (di seguito ad una diffida indirizzata al Comune e al Presidente della Repubblica) la vigenza e la legittimità dei decreti che facevano obbligo dell’esposizione del crocifisso in tutte le sedi delle istituzioni statali. Dopo aver rifiutato di svolgere le funzioni di scrutatore (che all’epoca erano obbligatorie) fu inquisito e dopo cinque gradi di giudizio fu assolto, con la formula piena del fatto che non sussiste, dalla Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, con la sentenza del 1° marzo 2000, pubblicata il 6 aprile 2000 con il n. 4273  (investita una seconda volta dopo il primo rinvio, non senza stigmatizzare il comportamento della Corte territoriale, che non si era attenuta ai principi di diritto affermati nella prima sentenza pronunciata dalla III Sez. Pen. Il 13 ottobre 1998 e pubblicata il 4 gennaio 1999 con il n. 10), che annullava senza rinvio la sentenza di della Corte di Appello di Torino, affermando, in conclusione, questo principio: «Costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di presidente, scrutatore o segretario – ove non sia stato l’agente a domandare di essere ad esso designato – la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico a causa dell’organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di quello di specifica designazione, del crocifisso o di altre immagini religiose.».

In quella occasione la Corte di Cassazione, richiamando tutta la giurisprudenza costituzionale in materia (con una rassegna ragionata che merita di essere letta), aveva affermato la liceità del motivo addotto dall’imputato (ed anzi il particolare valore morale e sociale, riconosciutogli con l’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c.p.): «vale a dire il rispetto del principio di laicità e della libertà di coscienza, che ha direttamente determinato il rifiuto e che, rendendolo non contraddittorio con i valori costituzionali, ne esclude perciò l’antigiuridicità. Un’interpretazione realistica, che collochi il “giustificato motivo” nel contesto di azione e comunicazione determinato dalla carta costituzionale, svolge una funzione adeguatrice all’eliminazione della rilevanza preminente ed esclusiva per l’addietro assegnata ai simboli della religione cattolica, in quanto strumentalmente assunta come religione dello stato. Invero, nella motivazione della sentenza 440/95 cit., in forza della quale la bestemmia contro i “simboli e le persone venerati nella religione dello Stato”, tra cui il crocifisso, non è più preveduto dalla legge come reato, la Corte costituzionale indica l’obiettivo di una tutela non discriminatoria ma pluralistica di “tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse”: pluralismo garantito dal supremo principio di laicità dello stato, che induce a preservare lo spazio “pubblico” della formazione e della decisione dalla presenza, e quindi dal messaggio sia pure a livello subliminale, di immagini simboliche di una sola religione (come, in generale, di una sola delle altre condizioni non discriminabili, di cui all’art. 3 Cost.), ad esclusione delle altre.».

Nella precedente sentenza n. 10/1999, sopra citata, la Cassazione penale, dopo aver ribadito la tutela  primaria della libertà di coscienza che la Costituzione considera all’art. 2 diritto inviolabile dell’uomo, dal quale ne derivano altri, come la libertà di professare la propria fede religiosa e di libera manifestazione del pensiero, aveva affermato i seguenti principi, che possono avere una certa rilevanza nel nostro caso di specie: «A nessuno può essere imposta una prestazione di contenuto religioso o contrastante con i propri liberi convincimenti in materia di culto. E il conflitto deve essere risolto assicurando tutela alla libertà di coscienza rispetto alla prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, che abbia un contenuto contrastante con l’espressione della libertà stessa, in modo diretto e con vincolo di causalità immediata. Diversamente la tutela della libertà diviene pretestuosa ed occasionalmente prospettata al solo fine di sottrarsi ad un adempimento doveroso. In altri termini tra obbligo religioso e comportamento individuale deve esistere un nesso eziologico. Deve, quindi, affermarsi: il “giusto motivo”, che consente di rifiutare l’ufficio di scrutatore nelle elettorali, deve essere manifestazione di diritti o facoltà, il cui esercizio determini un inevitabile conflitto tra la posizione individuale – legittima e costituzionalmente garantito in modo prioritario – e l’adempimento dell’incarico, al cui contenuto sia collegato con vincolo di causalità immediata.».

Non sembra, invece, pertinente il richiamo ( fatto dal giudice di appello e dall’odierno  ricorrente, pur con diverse letture), alla pronuncia delle Sezioni Unite del 14 marzo 2011, n. 5924, che avevano escluso la sussistenza di diritti soggettivi nel comportamento di un giudice dissidente che pretendeva , in ossequio al principio di laicità dello Stato, che il crocifisso fosse rimosso da tutte le aule di udienza; e, infatti, fu rimosso perché non volle tenere udienza anche quando gli fu assegnata un’aula senza la presenza del simbolo religioso contestato. Su questo punto la Sezione disciplinare del CSM aveva chiaramente escluso le giustificazioni addotte dal magistrato specificando che solo nel caso in cui gli fosse stato imposto di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione.

Per completezza va detto anche che il giudice dissidente, condannato in entrambi i giudizi di merito per il reato continuato di rifiuto degli atti di ufficio (art. 328, comma 1, c.p.) era stato poi mandato assolto dalla Corte di Cassazione (sentenza della Sez.VI Penale, 17 febbraio 2009 – 10 luglio 2009, n. 28482) per insussistenza del fatto.

In quella occasione i giudici di legittimità, tra le altre questioni dibattute (come quella relativa  alla legittimità della Circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29 maggio 1926 che imponeva la presenza del crocifisso nelle aule di udienza, simbolo «venerato quale solenne ammonimento di verità e giustizia») evidenziarono anche la problematica relativa alla eventuale sussistenza di una «effettiva interazione tra il significato, inteso come valore identitario, della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia e la libertà di coscienza e di religione, intesa non solo un senso positivo, come tutela del credente di fede diversa e del non credente che rifiuta di avere una fede»; e tuttavia non la svilupparono, non essendo funzionale alla valutazione della ipotizzata fattispecie delittuosa, esclusa nella sua materialità.

A definizione del caso che ci occupa sarebbe stata auspicabile, ad avviso di chi scrive, una decisione come quella della Cassazione penale del 2000, con una lineare applicazione del principio di laicità e di neutralità in materia religiosa dello Stato.

Le Sezioni Unite, invece, come abbiamo detto sopra, hanno affermato la necessità di un processo democratico di confronto e di voto, per addivenire a una concordanza pratica (un principio di bilanciamento degli interessi in gioco teorizzato dal giurista tedesco Konrad Hesse, che negli anni ’70 e ’80 è stato anche giudice della Corte Costituzionale federale di Germania utilizzando argomenti che alcuni costituzionalisti, in particolare Marta Cartabia, proprio in questa materia hanno esposto in varie occasioni (in tal senso chi scrive ha letto in particolare i punti nn. 19 e ss. della sentenza annotata, alle pp. 44 e ss.).

Riportiamo qui un passo del suo contributo «La laicità positiva in J. Ratzinger/Benedetto XVI» (pubblicata in inglese negli Atti del Simposio organizzato dalla Fondazione Ratzinger e dalla Lumsa nel 2018: P. Azzaro – M. A. Glendon (edd.), FundamentalRights and ConflictsamongRights, Steubenville, Franciscan University Press, 2020, nell’originale italiano riportato da Padre Federico Lombardi nel suo articolo, Il crocifisso nelle aule scolastiche. Un dialogo per l’educazione nella libertà, in La Civiltà Cattolica, vol. II, quad. n. 4104, 2021, pp. 567 e ss.): «Tutti devono concedere qualcosa, ma nessuno deve “consegnarsi” totalmente o capitolare. L’accomodamento ragionevole si basa sull’idea che tutti vogliono vivere insieme: non è il risultato di un ragionamento a tavolino, ma può funzionare solo nella pratica, in un rapporto faccia a faccia. Esso richiede che si prendano in considerazione i dettagli specifici delle circostanze e l’atteggiamento delle parti. L’accomodamento ragionevole si basa sulla cooperazione e sulla presenza di un terzo imparziale che facilita la conciliazione delle posizioni in contrasto e aiuta a trovare un terreno comune. Non si sottolineerà mai abbastanza la potenza che l’incontro delle persone genera per congiungere tra loro mondi diversi. L’accomodamento ragionevole non è il regno degli assoluti, ma si esprime con parole come “bilanciamento, flessibilità, ragionevolezza” e, per dirla con Pierre Bosset, richiede “immaginazione pratica”. Per queste ragioni, l’accomodamento ragionevole non coincide con l’esenzione: dove l’esenzione è un approccio che si basa sull’aut aut, l’accomodamento fa leva sull’et et; dove l’esenzione tiene i gruppi a distanza tra loro, l’accomodamento unisce le persone; se l’esenzione può essere stabilita per legge, l’accomodamento richiede esercizio pratico e non può essere trattato come un modello da replicare, ma come una strada da percorrere ogni volta di nuovo». (Ancor prima, sempre di Marta Cartabia, v. Il crocifisso e il calamaio, in Roberto Bin, Giuditta Brunelli, Andrea Pugiotto, Paolo Veronesi, La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Atti del Seminario di Ferrara, 28 maggio 2004, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 63 e ss.).

Un reasonable accommodation tra la libertà della religione e la libertà dalla religione: dal momento che sia la presenza che l’assenza del simbolo religioso sono in grado di offendere le diverse sensibilità e di apparire come una mancanza di rispetto, il sistema educativo è tenuto a bilanciare gli interessi confliggenti e le conseguenze dell’una o dell’atra scelta.

A questo punto potrebbe essere auspicabile, se non proprio indispensabile, un intervento del legislatore, in un senso o nell’altro, inclusivo o esclusivo dell’esposizione dei simboli religiosi (non solo del crocifisso, ovviamente) nelle aule scolastiche (e negli altri luoghi pubblici).

Certo è difficile immaginare che nel nostro paese possa trovare cittadinanza una legge come quella  bavarese sull’educazione e l’istruzione pubblica (approvata il 23 dicembre 1995 – a modifica di quella precedente del 21 giugno 1983 – ed entrata in vigore il 1° gennaio 1996, dopo la sentenza della Corte costituzionale federale del 16 maggio 1995 che aveva dichiarato illegittima, perché in contrasto con il diritto alla libertà religiosa costituzionalmente garantito, un’analoga disposizione contenuta nel Regolamento scolastico per le scuole elementari, che ricomprendono anche quelle che per noi sono le scuole medie), come proposto, tra gli altri, da Stefano Ceccanti.

L’art. 7, comma 3 di detta legge così dispone: «In considerazione della connotazione storica e culturale della Baviera, in ogni aula scolastica è affisso un crocifisso. Con ciò si esprime la volontà di realizzare i supremi scopi educativi della costituzione sulla base di valori cristiani e occidentali in armonia con la tutela della libertà religiosa. Se l’affissione del crocifisso viene contestata da chi ha diritto all’istruzione per seri e comprensibili motivi religiosi o ideologici, il direttore didattico cerca un accordo amichevole. Se l’accordo non si raggiunge, egli deve adottare, dopo aver informato il provveditorato agli studi, una regola ad hoc (per il caso singolo) che rispetti la libertà di religione del dissenziente e operi un giusto contemperamento delle convinzioni religiose e ideologiche di tutti gli alunni della classe; nello stesso tempo va anche tenuta in considerazione, per quanto possibile, la volontà della maggioranza».

La Sezione Lavoro nell’ordinanza di rimessione ha prospettato la discriminazione del docente dissidente rispetto al credente cristiano con argomentazioni che non sono state condivise dalle Sezioni Unite, che, invece, hanno fatto proprie le osservazioni e le conclusioni del P.G., così disattendendo le censure del ricorrente.

È questo un punto che suscita qualche perplessità, perché se anche fosse condivisibile l’assunto che il simbolo religioso non pregiudica l’autonomia didattica e la libertà di insegnamento, si può ragionevolmente sostenere che la sua presenza sia rispettosa della libertà religiosa negativa che il docente (al pari degli studenti e degli altri componenti della comunità scolastica) ha il diritto di esercitare?

È vero che il datore di lavoro pubblico non ha inteso connotare in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento e non ha manifestato esplicita adesione alla religione cattolica; ma la presenza del simbolo «passivo» del crocifisso sulla parete centrale dell’aula, alle spalle del docente, non è sufficiente a ritenere connotato dalla religione cattolica il luogo di lavoro in cui l’insegnamento si svolge? Certamente c’è la volontà espressa dalla maggioranza degli studenti, ma è sufficiente, questa, a far soccombere la libertà religiosa negativa dell’insegnante?

Sono, per chi scrive, punti di domanda che meritano una più attenta riflessione.

Le Sezioni Unite, però, introducono un elemento che merita di essere preso seriamente in considerazione, quello della irrilevanza della percezione soggettiva del docente. Ma nell’esercizio di un diritto costituzionale fondamentale come è possibile distinguere la percezione meramente soggettiva della sua violazione dalla violazione effettivamente verificatasi?

Certamente, un conto è la libertà religiosa, in questo caso negativa, del docente, altra cosa è il condizionamento della sua libertà e autonomia di insegnamento.

Ma come vale, in assoluto, la libertà religiosa positiva degli studenti, non deve poter valere, allo stesso modo e nella stessa misura la libertà religiosa negativa del docente a prescindere dagli effetti sull’insegnamento?

Qui non si tratta della sensazione del docente di fastidio o non gradimento della presenza del simbolo religioso nell’aula scolastica dove tiene lezione o del suo disaccordo sul piano culturale, non è un problema di sensibilità personale, che comunque potrebbe avere la sua rilevanza, come la stessa Corte riconosce, insieme ad altri elementi.

Ed allora, se, come scrive la S.C., «la percezione soggettiva del ricorrente non può da sola essere sufficiente a caratterizzare, e ad integrare, la “situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” alla quale si riferisce il citato art. 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 216 del 2003» e «l’esistenza di una commistione tra l’esposizione del simbolo e l’attività di insegnamento va saggiata concretamente, valutando se, nel contesto scolastico di riferimento, esistano elementi che possano far pensare ad una compenetrazione tra la collocazione di quell’arredo e l’attività di docenza», questo specifico punto non meritava forse di essere indagato nel giudizio di rinvio, proprio perché, come scrive sempre la Corte, «anche in base all’agevolato regime probatorio che caratterizza la tutela antidiscriminatoria e annette rilievo cruciale al dato statistico (art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011) – va sostanziato da riferimenti oggettivi, da elementi di fatto»?

Per altro verso l’affermazione della S.C.: «Il principio di intangibilità del foro interno della persona e il diritto di professare liberamente la propria non credenza non appare violato per il solo fatto di convivere – in quel peculiare ambiente lavorativo che è la scuola – con segni, rappresentazioni o manifestazioni di un pensiero diverso, non imposto dall’autorità ma richiesto dai fruitori del servizio scolastico: di ciò si permea, d’altra parte, una società democratica e libera nelle manifestazioni di pensiero» sembra essere in contraddizione con l’affermazione della necessità di una concreta mediazione tra le diverse componenti della comunità scolastica, che nel caso di specie non è stata perseguita, tanto che le disposizioni impartite dal dirigente scolastico sono state dichiarate illegittime e la sanzione disciplinare annullata.

Per la giurisprudenza della Corte di Giustizia citata anche nella motivazione della sentenza annotata sia consentito rinviare a V.A. Poso, Religione e pregiudizio. La Corte di Giustizia e la discriminazione per il velo islamico indossato nei luoghi di lavoro tra libertà religiosa dei lavoratori e libertà di impresa, in www.rivistalabor.it,  24 marzo 2017 ( a commento delle sentenze gemelle del 14 marzo 2017 (Grande Sezione), C- 188/15, Bougnaoui e Addh c. Micropole SA e C- 157/15, Achbita e Centrum… c. G4S Secure Solutions NV) e sempre a V.A. Poso, La neutralità (politica, filosofica o) religiosa del datore di lavoro deve, quindi, prevalere sulla libertà dei lavoratori di indossare abiti o simboli evidenti delle proprie convinzioni religiose sui luoghi di lavoro?, in www.rivistalabor.it, 23 luglio 2021(a commento della sentenza della Grande Sezione pronunciata il 16 luglio 2021,a definizione delle due cause riunite, rispettivamente, C-804/18, IX c. Wabe e V, e C-341/19, MH Müller Handels GmH c. MJ).

In conclusione, la soluzione individuata dalla S.C. appare difficile da praticare, e andranno verificati in concreto gli sviluppi, anche nella prospettiva di un possibile intervento legislativo. È, comunque, apprezzabile lo sforzo e l’impegno interpretativo, anche per l’equilibrio della decisione e per la chiara collocazione della scuola nel tessuto della democrazia italiana e della Costituzione, tra gli organi fondanti e costitutivi della Repubblica italiana (sebbene non compaia tra gli stessi). Le Sezioni Unite hanno ben presente questo principio quando richiamano, con una immagine di grande significato e valore simbolico, il paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, per cui «si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […]».

A pronunciare queste parole, se chi scrive ha avuto buona memoria e ha fatto buona ricerca, è stato Piero Calamandrei, in anni nei quali, non era tanto in discussione la scuola laica, ma quella pubblica, nel discorso pronunciato a Roma l’11 febbraio 1950, al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale – ADSN – (pubblicato in Scuola democratica, periodico di battaglia per una nuova scuola, Roma, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1 e ss.).

Una citazione, questa, che conforta chi legge la sentenza delle Sezioni Unite.

Visualizza i documenti: Cass., sez. un., 9 settembre 2021, n. 24414Cass., ordinanza 18 settembre 2020, n. 19618Requisitoria Procuratore Generale

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