Una riforma del consenso che divide il Paese e rischia di incrinare il delicato equilibrio tra tutela e giustizia penale
Il nuovo impianto normativo sul consenso promette protezione, ma solleva serie preoccupazioni su onere della prova, garanzie difensive e possibili abusi nelle crisi familiari più conflittuali, con effetti potenzialmente gravi.
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La riforma sul consenso sessuale, così come oggi formulata, sembra nascere da un intento nobile: proteggere chi denuncia una violenza, ridurre traumi processuali, chiarire che il silenzio non può essere interpretato come assenso. Ma il diritto non vive di buone intenzioni; vive di proporzioni, di garanzie e di equilibrio. E questo equilibrio, nel nuovo impianto, rischia di incrinarsi pericolosamente.
Lo ha detto con nettezza l’avvocato Giandomenico Caiazza, già presidente dell’Unione delle Camere Penali, uno dei giuristi più ascoltati in materia di garanzie processuali: la riforma introduce una presunzione che sposta di fatto l’onere della prova sull’imputato. Non è solo una critica tecnica, ma un campanello d’allarme. “Come può una persona dimostrare l’esistenza di un consenso privato, personale, intimo?” chiede Caiazza. È questa la domanda cruciale che il legislatore sembra ignorare: non si può chiedere come prova ciò che, per natura, non può essere provato.
L’idea che basti la percezione soggettiva dell’assenza di consenso per far scattare un procedimento — senza la necessità di un minimo riscontro fattuale — introduce una frattura profonda con i principi del giusto processo. Si passa da un sistema fondato sulla prova a uno fondato sulla presunzione, e questa presunzione, nella pratica, pesa su un solo lato del tavolo.
C’è poi un terreno particolarmente delicato: le separazioni conflittuali. È un capitolo di vita reale dove l’abuso dello strumento giudiziario, pur minoritario, esiste e produce danni devastanti. Una norma che riduce le necessità probatorie rischia di diventare un moltiplicatore di contenziosi strumentali, con conseguenze pesanti non solo sugli adulti, ma soprattutto sui figli, già esposti a tensioni insostenibili. Anche qui, Caiazza avverte: si rischia di trasformare il processo penale in un’arma impropria nelle vicende familiari più fragili.
Va detto con chiarezza: la tutela della vittima nei processi per violenza sessuale è già oggi, giustamente, molto elevata. La domanda è se sia necessario spingerla oltre quel limite in cui la protezione di una parte diventa compressione dei diritti dell’altra. La giustizia non è un gioco a somma zero: se perde il principio di equilibrio, perdiamo tutti.
Per questo la riforma, così com’è, appare più un atto simbolico che una soluzione efficace. E i simboli, in diritto penale, sono pericolosi. Servirebbe coraggio politico non per approvarla a ogni costo, ma per ripensarla, rimetterla sul tavolo e costruire una norma che garantisca davvero entrambe le parti: chi denuncia e chi è denunciato.
La protezione delle vittime è doverosa. L’erosione delle garanzie non lo è mai.
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