Onori a chi disonora la memoria
Francesca Albanese lascia la trasmissione “L’Aria che tira” quando si parla della Segre, ma il Comune di Bologna la premia. E intanto le piazze “pacifiste” si colorano di slogan che negano il dolore ebraico.
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Ci sono gesti che pesano più di mille parole. Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i diritti nei Territori palestinesi, non ha pronunciato neppure una sillaba: è bastato alzarsi e uscire dall’aula nel momento in cui veniva ricordata Liliana Segre. Un silenzio assordante, un’assenza che diventa dichiarazione politica. Eppure, il Comune di Bologna — città simbolo dell’antifascismo e della Resistenza — ha scelto proprio lei per conferirle la cittadinanza onoraria. Un riconoscimento che suona come una beffa, un rovesciamento dei valori che dovrebbero unire la memoria al presente.
Non è questione di opinioni o di simpatie personali. È questione di rispetto. Liliana Segre non rappresenta “una parte”: rappresenta la memoria di ciò che l’odio, l’indifferenza e le giustificazioni ideologiche possono produrre. Voltarsi dall’altra parte di fronte alla sua voce — soprattutto in questi tempi di rigurgiti antiebraici — è un gesto che non si può minimizzare. Premiarlo, invece, è un modo per renderlo accettabile, perfino nobile.
C’è qualcosa di profondamente distorto nel nostro discorso pubblico. Chi parla di antisemitismo viene accusato di strumentalizzare. Chi ricorda le atrocità del 7 ottobre — i civili israeliani massacrati da Hamas, le donne stuprate, i bambini presi in ostaggio — viene subito corretto, ridimensionato, spinto al silenzio in nome di un malinteso “equilibrio”. Intanto, nelle piazze “pacifiste” sventolano bandiere palestinesi ma nessuna parola viene spesa per condannare Hamas, Hezbollah o l’Iran che li sostiene. “Dal fiume al mare”, gridano in molti, come se non fosse uno slogan di cancellazione.
Essere contro la guerra non significa dimenticare chi l’ha cominciata. Difendere i diritti dei palestinesi — giusto e doveroso — non può diventare il pretesto per normalizzare l’odio contro Israele o per chiudere gli occhi davanti all’antisemitismo che si riaffaccia, travestito da impegno umanitario. L’errore più grave della sinistra europea — e italiana in particolare — è proprio questo: non saper più distinguere tra solidarietà e giustificazione, tra la critica legittima a un governo e la delegittimazione di un intero popolo.
In nome di un pacifismo a senso unico, si tollerano parole e simboli che un tempo sarebbero stati inaccettabili. Si parla di “resistenza” il 7 ottobre, si nega la natura terroristica di Hamas, si riscrive la storia in tempo reale. Tutto, pur di non disturbare una certa narrazione. E così, l’antisemitismo — quello vero, quello che credevamo sepolto sotto le macerie della Shoah — torna a essere pubblico, spavaldo, applaudito.
Non serve molto per riconoscerlo. Basta guardare il fastidio con cui viene accolta ogni voce ebraica che osa dissentire. Basta osservare la solerzia con cui si concede spazio e onori a chi trasforma il conflitto mediorientale in un tribunale morale a senso unico. Bologna, in questo, ha compiuto un passo emblematico: nel momento in cui avrebbe potuto difendere la memoria, ha scelto la provocazione.
Non si tratta di censurare nessuno, ma di comprendere che ci sono limiti simbolici che una democrazia dovrebbe saper riconoscere. Premiare chi mostra disprezzo per la testimonianza di Liliana Segre non è libertà d’opinione: è miopia morale. È dimenticare che la libertà stessa — quella che oggi ci consente di discutere e manifestare — è nata anche dal dolore di chi, come Segre, ha conosciuto l’abisso.
In questo clima avvelenato, ricordare diventa un atto di coraggio. Dire “mai più” non significa schierarsi con un governo, ma con l’umanità. E allora sì, oggi più che mai servirebbe una piazza davvero pacifista, in cui le bandiere non fossero armi ideologiche ma simboli di compassione universale. Una piazza in cui sventolare insieme la stella di David e la mezzaluna, perché ogni vita vale.
Ma finché chi parla di antisemitismo verrà zittito, finché le istituzioni premieranno chi volta le spalle alla memoria, finché la parola “Israele” verrà pronunciata solo per essere condannata, allora sì: potremo dire di aver disonorato la memoria. E non serviranno targhe né cittadinanze onorarie a lavarci la coscienza.
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