Milano, Sala e il silenzio colpevole del Pd
Il centrosinistra milanese si risveglia tardi e male, tra inchieste giudiziarie e correzioni di rotta. Ma senza un'idea chiara di città e di giustizia sociale, il rischio è consegnare Milano alla destra.
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C’è un vizio ricorrente nella politica italiana: confondere giustizia e appartenenza, trasformare ogni inchiesta in una battaglia di posizionamento. Così, mentre Giuseppe Sala finisce sotto indagine, dal Partito Democratico arrivano dichiarazioni che suonano più come un tentativo di protezione politica che come una riflessione seria sul merito dei fatti. Ma davvero ha senso evocare le “condizioni del PD” in merito a un procedimento penale? Sala non è accusato di aver deviato dalla linea del partito: è indagato per presunti reati. La magistratura non si orienta secondo le mozioni congressuali né archivia in base all’obbedienza interna. Eppure, sembra che la priorità sia quella: riallineare, assolvere moralmente, evitare il conflitto.
Ma la questione più rilevante è politica, e affonda le sue radici ben prima delle inchieste. Oggi, lo stesso Sala parla di “maggiore attenzione alle periferie”, di “urbanistica più inclusiva”, di “equilibrio tra pubblico e privato”. Parole che suonano come un tardivo mea culpa. Perché se oggi si promette un cambiamento, si ammette implicitamente che finora la visione dominante era diversa: una città proiettata verso il modello anglosassone, brandizzata, plasmata sugli interessi del mercato immobiliare, attrattiva per il capitale ma sempre meno accessibile ai suoi cittadini. Una visione pienamente legittima, certo, ma tutt’altro che progressista.
E qui si apre un interrogativo: dov’era il PD mentre questa Milano prendeva forma? Forse aspettava che il vento cambiasse, o che i sondaggi dessero un segnale. Forse riteneva più prudente non disturbare un sindaco popolare, anche a costo di abdicare alla propria funzione critica. Ma c’è un momento in cui l’attendismo diventa complicità. Ed è difficile non vedere una contraddizione profonda tra la narrazione di una sinistra attenta al bene comune e il silenzio di fronte a una città sempre più polarizzata, diseguale, a misura di rendita.
Non si tratta solo di Sala. Si tratta di un intero gruppo dirigente che sembra accettare come inevitabile una sola idea di sviluppo: quella dettata dal business, dal “fare”, dall’efficienza misurata in metri quadri edificabili. Ma davvero è questa l’unica innovazione possibile? Non esistono altri modelli urbani — Berlino, Stoccolma, Vienna — capaci di coniugare crescita e giustizia sociale? O siamo condannati a scegliere tra una destra autentica e una sinistra che ne imita le politiche con meno convinzione?
Questa ambiguità rischia di costare cara. Perché tra l’originale e la copia, si sa, l’elettore preferisce sempre l’originale. E così il “Sala bis” potrebbe essere l’ultimo atto di una lunga egemonia progressista a Milano. Non per merito dell’opposizione, ma per la crescente delusione verso un centrosinistra che parla di equità ma gestisce come un’azienda, che promette diritti ma promuove rendite, che predica partecipazione ma decide tutto altrove.
Un partito che si dice di sinistra dovrebbe avere il coraggio di dire e fare cose di sinistra. A partire dalle città, che sono il laboratorio politico più immediato. Amministrare non è mediare all’infinito. È scegliere. E, prima ancora, è decidere da che parte stare.
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