Magistrati intoccabili?
Valutazioni di carriera tra automatismi e silenzi.
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La valutazione ogni 5 anni dei magistrati in Italia è uno di quei meccanismi che esistono, funzionano sulla carta e rassicurano le istituzioni, ma che nell’opinione pubblica continuano a sollevare dubbi profondi. È il cuore di una contraddizione mai risolta: come conciliare l’indipendenza della magistratura con un sistema di controllo serio, credibile e realmente selettivo? Da decenni la risposta è affidata a procedure formali che raramente producono effetti concreti, alimentando l’idea di una categoria sostanzialmente autoregolata e poco esposta a reali verifiche.
Il sistema prevede che ogni 4 anni il magistrato venga valutato, secondo criteri che includono capacità professionale, laboriosità, diligenza e impegno. In teoria, un impianto equilibrato, che evita di entrare nel merito delle decisioni giudiziarie per non violare l’autonomia del giudice. In pratica, però, il risultato è quasi sempre lo stesso: giudizi positivi a larghissima maggioranza, valutazioni negative rarissime, conseguenze di carriera minime. Un rituale amministrativo che sembra più certificare l’appartenenza che misurare davvero la qualità del lavoro svolto.
Il nodo principale sta nella struttura del sistema. Le valutazioni nascono all’interno dei Consigli giudiziari, composti in larga parte da magistrati che giudicano altri magistrati, spesso colleghi, talvolta ex compagni di ufficio o di percorso professionale. Anche senza ipotizzare favoritismi espliciti, è evidente che il contesto non favorisce un approccio rigoroso e conflittuale. La logica è quella dell’equilibrio interno, della prudenza, della tutela dell’istituzione. Il risultato è una valutazione che difficilmente diventa strumento di selezione e miglioramento.
Questo meccanismo produce un effetto collaterale rilevante: l’assenza di responsabilizzazione percepita. Quando quasi tutti avanzano di carriera e pochissimi vengono fermati o richiamati, il messaggio che passa è che l’impegno individuale conta meno dell’anzianità e della continuità formale del servizio. Non si tratta di mettere in discussione la preparazione tecnica della magistratura italiana, che resta mediamente alta, ma di interrogarsi sull’efficacia di un sistema che non distingue abbastanza tra chi lavora bene, chi lavora molto e chi lavora semplicemente il minimo indispensabile.
Il tema diventa ancora più delicato se si considera l’impatto esterno. I cittadini vedono processi che durano anni, decisioni contraddittorie, errori che talvolta hanno conseguenze gravi sulla vita delle persone, e faticano a comprendere perché tutto questo non incida in modo significativo sulle carriere. La distanza tra percezione sociale e autorepresentazione istituzionale si allarga, alimentando sfiducia e polemica politica. Non è un caso che la valutazione dei magistrati torni ciclicamente al centro del dibattito pubblico, soprattutto nei momenti di crisi del sistema giudiziario.
Le riforme discusse negli ultimi anni hanno tentato di intervenire sui margini: più indicatori, più documentazione, qualche apertura alla partecipazione di membri laici. Ma il nodo resta culturale prima ancora che normativo. Finché la valutazione sarà vissuta come un adempimento da superare e non come un momento reale di verifica, difficilmente potrà incidere sulla qualità complessiva del servizio giustizia.
La sfida è trovare un equilibrio nuovo, che non trasformi il controllo in pressione politica, ma che renda credibile l’idea che anche nella magistratura il merito, l’efficienza e la responsabilità abbiano un peso concreto. Senza questo passaggio, la valutazione resterà un atto formale, utile a tranquillizzare i regolamenti, ma incapace di convincere i cittadini che la giustizia sappia davvero guardare se stessa con spirito critico.
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