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La verità viene a galla: nessuna pista nera, i colpevoli vanno ricercati tra i loro colleghi della Procura

L’isolamento istituzionale e professionale di Falcone e Borsellino, aggravato da scelte interne alla Procura di Palermo.

La verità viene a galla: nessuna pista nera, i colpevoli vanno ricercati tra i loro colleghi della Procura

La drammatica audizione del procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca davanti alla Commissione Antimafia riapre ferite che non si sono mai rimarginate. Per tre ore, De Luca ha riportato al centro il clima che si respirava nella Procura di Palermo nei mesi che precedettero le stragi di Capaci e via D’Amelio, individuando non solo errori ma vere e proprie omissioni istituzionali.

Secondo il procuratore, la cosiddetta pista nera legata a estremisti di destra “vale zero” sul piano giudiziario. Le cause del clima che portò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbero invece da ricercare altrove: nel mancato approfondimento dell’indagine mafia-appalti, nell’isolamento dei magistrati più esposti, nella percezione — anche all’interno di Cosa Nostra — di una Procura divisa, in cui alcuni pm apparivano “malleabili” e altri irriducibili.

Il nome che torna con maggiore forza è quello del procuratore capo dell’epoca, Pietro Giammanco. De Luca lo accusa di scelte organizzative inopportune, di rapporti noti con ambienti politici, di aver frenato l’indagine sui rapporti tra mafia e imprese. La prova, dice, è che l’inchiesta venne ripresa con slancio solo nel 1993, dopo l’uscita di scena del procuratore e la rivolta interna dei pm.

Ma il quadro tratteggiato è più ampio: nelle sue parole compaiono anche Giuseppe Pignatone, criticato per opportunità legate a rapporti immobiliari con imprenditori coinvolti in mafia-appalti, e Gioacchino Natoli, che secondo De Luca avrebbe mentito al Csm sulle tensioni interne con Falcone. E poi Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, non indagati, ma comunque parte della catena di responsabilità funzionali su quel fascicolo.

L’episodio più rivelatore riguarda Paolo Borsellino: quando il pentito Gaspare Mutolo gli parlò fuori verbale delle collusioni dell’allora pm Domenico Signorino e del dirigente di polizia Bruno Contrada, Borsellino non si rivolse ai co-titolari dell’inchiesta Natoli e Lo Forte. Scelse altri magistrati. “Il massimo atto di sfiducia”, lo definisce De Luca.

Al di là dei nomi, l’accusa è sistemica: la Procura di Palermo dell’epoca non fu in grado di proteggere i suoi magistrati migliori. Cosa Nostra, percependo il caos interno e le fratture, avrebbe maturato un ragionamento brutale: eliminare Falcone e Borsellino perché con altri “non ci sarebbero stati problemi”.

Una lettura che scuote la storia giudiziaria italiana e che la maggioranza politica ha accolto con entusiasmo, perché conferma un’immagine di quegli anni già da tempo messa in discussione. Resta però la sostanza: se le cose stanno come racconta De Luca, le stragi del ’92 non furono soltanto un attacco esterno. Furono anche il fallimento di un’istituzione che non seppe difendere chi stava combattendo la guerra più dura.

 

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