Ma io dico grazie a Francesca Albanese
Si criticano, giustamente, le sue parole sull’assalto alla Stampa come monito ai giornalisti.
Francesca Albanese… uno si sente come don Abbondio quando nell’ottavo capitolo dei Promessi sposi rumina: “Carneade! Chi era costui?”. Chi è Albanese? Perché l’abbiamo trasformata in una sorta di Sibilla che oracola e si pende dalle sue labbra? Sì, è la relatrice speciale dell’Onu sui territori palestinesi. E allora? Questo autorizza che a fine settembre rimproveri il sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari: “Si è sbagliato, ha detto una cosa che non è vera, la pace non ha bisogno di condizioni… Il sindaco non lo giudico, lo perdono. Però mi deve promettere che questa cosa non la dice più”. L’incauto Massari, va ricordato, poco prima aveva detto che “il feroce attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre non giustifica in alcun modo il massacro che è in essere a Gaza…Credo che la fine del genocidio e la liberazione degli ostaggi siano condizioni necessarie per avviare per quanto possibile un processo di pace”. Ma chi è Albanese che perdona e chiede abiure e promesse?
L’altro giorno, una nuova polemica: dopo l’irruzione di un centinaio di militanti Pro-Pal che hanno devastato la redazione della Stampa, Albanese condanna l’irruzione; al tempo stesso, avverte: “Che questo sia anche un monito alla stampa per tornare a fare il proprio lavoro, per riportare i fatti al centro del nuovo lavoro e, se riuscissero a permetterselo, anche un minimo di analisi e contestualizzazione”.
Monito? Mentre si scandisce “giornalista-terrorista, sei il primo della lista”?
E giù una valanga di polemiche, repliche, contro-repliche. Ospite della trasmissione Accordi e Disaccordi, Albanese replica: “Secondo me mi criticano perché faccio paura, rappresento il cambiamento e il risveglio delle coscienze…”. Qui vengono in mente le favole di Fedro e di Jean de La Fontaine sulla rana e il bue…
Si è insomma tentati di liquidare tutto: perché tanto spazio e tanto tempo alle parole e ai pensieri di Albanese? Nient’altro di meglio da fare, scrivere, dire, raccontare, spiegare? Perché ci si dedica con tanta attenzione a queste corbellerie?
Tuttavia, c’è un “tarlo”: quel “monito”. Per alcuni è l’annuncio di una minaccia. Ma no. Certamente tutto vuol dire Albanese, ma di sicuro non una minaccia. Intendiamolo, il “monito”, nel suo senso etimologico: “Richiamo al dovere e alle proprie responsabilità”. Il pulpito lascia a desiderare, ma il contenuto della “predica” vale un pensiero.
Albanese sostiene che si è riservato grande spazio mediatico all’irruzione alla Stampa e nessuna attenzione alla contemporanea pacifica e partecipata manifestazione di Genova. In questo caso duole ammettere che ha ragione.
Ovviamente si è fatto benissimo a trattare le violenze contro il giornale torinese come sono state trattate; anzi, a volerla dire tutta, forse si è stati perfino troppo indulgenti, “comprensivi”. Quello che è accaduto è molto più grave, pericoloso e inquietante di quanto forse si crede e si pensa. Però si è fatto malissimo a ignorare la manifestazione pacifica di Genova. Non tanto per quello che si prefigge, quegli obiettivi sono discutibili, più o meno condivisibili. È la modalità che va esaltata e “premiata”: il fatto che la manifestazione si sia svolta senza che siano state distrutte insegne, incendiate automobili, spaccate vetrine, assalite le forze dell’ordine, scagliate bombe carta. Che tutto si sia svolto in modo tranquillo, sereno, pacifico.
Ecco, il punto. Giornali, televisioni e in particolare il servizio pubblico, una qualche domanda se la dovrebbero fare.
Non c’è manifestazione violenta, devastazione e scontro provocati da estremisti di destra o sinistra che non siano raccontati nei particolari, enfatizzati, discussi. Giusto, opportuno, necessario, porsi domande sul come, il chi, il perché. Chiedersi e ragionare perché certe cose accadono, possono accadere; chi sono i responsabili, i manovali, i possibili “manovratori”; di quali mezzi dispongono, quale sia il loro vero fine, il fine di chi li usa, e perché non sono tempestivamente neutralizzati; perché queste loro “imprese” violente ancora sono accolte con consenso (poco o tanto che sia) e indifferenza: se vi sia un substrato di opinione che a mezza bocca, a mezzo pensiero, sospira: ce ne vorrebbero di assalti così, se li meritano. Dunque, diamoci sotto con interviste, inchieste, approfondimenti, spiegazioni. È giusto, come dicono in molti, vigilare: per impedire che si torni a un passato inquietante e tragico. Ma c’è anche un concreto presente quotidiano che inquieta.
Accade, e non di rado, che migliaia di cittadini decidano di “imbracciare” l’arma nonviolenta della penna, e sottoscrivono richieste referendarie o progetti di legge popolari. I mezzi di informazione disattendono il loro dovere di informare e garantire “conoscenza”; non si spiega quali siano i quesiti referendari; non si dà voce ai promotori perché possano esporre le loro ragioni; non si fornire l’informazione minima di base: come e dove firmare, se si vuole firmare.
Mediaticamente la nonviolenza viene mortificata, silenziata. Un caso concreto: sappiamo tutto delle “imprese” di una minoranza violenta di “Pro-pal”. Alzi la mano chi sa di una iniziativa politica che si chiama: “progetto di legge popolare Zuncheddu”.
Beniamino Zuncheddu è un pastore sardo che, dopo essere stato ingiustamente condannato all’ergastolo per una strage commessa nel 1991, è stato assolto nel gennaio 2024 dopo aver trascorso quasi 33 anni in carcere. La sua storia è un caso di grave errore giudiziario, con la condanna basata su una falsa testimonianza. Finita qui? Neppure per sogno. Dopo aver trascorso più di trent’anni in carcere, dopo aver visto la sua vita completamente abbandonata, si è trovato abbandonato con tre buste di plastica contenenti i suoi effetti personali, fuori dal portone del carcere. Vive, letteralmente, grazie al sostegno e all’amore della sorella e di altri familiari che hanno sempre creduto in lui e non l’hanno mai abbandonato. Lo Stato ancora non gli ha riconosciuto un solo centesimo di risarcimento per l’ingiusta detenzione.
Quanti sono i casi come quelli di Zuncheddu? Il Partito radicale sta raccogliendo le firme per un progetto di legge popolare (ne occorrono 50mila) perché sia garantito un sostegno economico immediato a chi ha subito una detenzione ingiusta e viene poi assolto. L’obiettivo è superare le lunghe attese per i risarcimenti e dare una risposta concreta a chi è stato assolto. La proposta prevede l’erogazione di una provvisionale mensile in attesa della sentenza definitiva di risarcimento del danno. Si prevede un assegno mensile erogato nel periodo che intercorre tra l’assoluzione e la sentenza di risarcimento del danno, per sostenere chi è stato assolto in modo rapido. Si tratta di un provvedimento a carattere risarcitorio, riparatorio e assistenziale, pensato per dare dignità a chi ha subito un errore giudiziario. La proposta mira a dare una risposta concreta agli errori del sistema giudiziario e a colmare un vuoto normativo, poiché la legge attuale non è sempre soddisfacente e i risarcimenti arrivano con grande ritardo.
Quanti sono a conoscenza di questa iniziativa nonviolenta, pacifica, tranquilla, che si traduce nella semplice “fatica” di una firma a un modulo? A fronte di questo silenzio, di questa indifferenza, che cosa ne devono ricavare i promotori di questo progetto di legge? Che per fare e avere notizia devono spaccare, in nome di Zuncheddu, una vetrina di una banca, o invadere e devastare la redazione di un giornale? È così che finalmente verrà conosciuto e dibattuto quello che propongono e fanno?
Altro esempio. Per ricordare le incivili e inaccettabili condizioni in cui sono ristretti, è accaduto che abbiano avuto luogo, nelle carceri italiane, scioperi della fame anche di alcune migliaia di detenuti; e ogni anno ufficialmente almeno una settantina si tolgono la vita (con loro anche numerosi operatori penitenziari). Eppure, nessuno ne parla, sembra farci caso. Però bastano un paio di materassi bruciati o due detenuti arrampicati su un tetto che minacciano sfracelli, ed ecco che puntuale scatta l’apparato informativo.
Che “lezione” se ne deve e può ricavare? Per pubblicizzare una causa, occorre compiere un qualcosa di violento. La nonviolenza non paga. Allora, per paradosso (ma neppure tanto), grazie al “monito” Albanese, che forse può indurci a riflettere e possibilmente provvedere.
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