La resa alla violenza
Quando la protesta diventa intimidazione.
In evidenza
La resa alla violenza
Quando la protesta diventa intimidazione,
C’è un limite che una democrazia matura non dovrebbe mai vedere superato. A Torino, questo limite è stato calpestato con gli anfibi dell’arroganza e dell’impunità. Il letame lanciato oltre le cancellate non è solo un gesto miserabile: è il manifesto di un’idea malata secondo cui chi non si allinea va zittito, sporcato, umiliato. Non una protesta: un’aggressione. E non contro La Stampa in quanto edificio, ma contro ciò che rappresenta — il diritto di raccontare i fatti senza chiedere permesso a nessuno, tantomeno a chi usa la causa palestinese come paravento ideologico per giustificare la violenza.
Il blitz del Ksa, organizzato come una spedizione punitiva, dice molto più di quanto i suoi protagonisti immaginino. Dice che in una parte di militanza si è fatto strada un pensiero tossico: la convinzione che l’informazione sia un bersaglio legittimo, un nemico da colpire, un ostacolo da scavalcare con la forza. Ed è gravissimo che in questo Paese ci sia sempre qualcuno pronto a spiegare, minimizzare, relativizzare — come se l’assalto a un giornale fosse una variante folcloristica del dissenso.
Il Presidente della Repubblica, la Presidente del Consiglio, il presidente del Senato, il ministro dell’Interno, il sindaco della città: la solidarietà è arrivata dovunque, forte e unanime. Bene. Ma non basta. Perché a ogni attacco come questo segue invariabilmente la liturgia del “caso isolato”, delle anime belle che si dissociano a denti stretti mentre intanto alimentano, nelle piazze e sui social, il clima esatto che rende possibili queste derive.
Chi usa la protesta come clava, chi confonde l’attivismo con il vandalismo, chi agita il nome di un giovane trattenuto in un Cpr per trasformarlo in alibi, porta una responsabilità che non può essere nascosta dietro slogan gridati al megafono. La libertà di stampa non è un orpello retorico: è il baluardo che impedisce a qualsiasi potere — politico, economico o di piazza — di riscrivere la realtà.
L’irruzione nella nostra sede è durata pochi minuti. Il suo significato, purtroppo, durerà molto di più. E riguarda tutti: perché quando la violenza entra in un giornale, non è un giornale a essere sotto assedio. A mettere la ciliegina sulla torta il solito commento acido e provocatorio di Francesca Albanese.
La relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati, ha sottolineato che l’episodio dovrebbe rappresentare un “monito” per il mondo dell’informazione. Secondo la relatrice speciale, la stampa è chiamata a “tornare a fare il proprio lavoro” riportando i fatti “al centro” e garantendo un’informazione accompagnata, quando possibile, da un adeguato livello di analisi e contestualizzazione.
Albanese ha inoltre rivolto una domanda diretta ai media, chiedendo perché non sia stata dedicata pari attenzione alle mobilitazioni avvenute a Genova e in decine di altre città italiane, dove, a suo dire, erano scese in piazza molte persone. Un interrogativo che, nelle sue intenzioni, invita le redazioni a riflettere sulla selezione delle notizie e sulla responsabilità nel raccontare in modo completo ciò che accade nel Paese.
Altre Notizie della sezione
Se dipendesse dai giovani Putin marcerebbe comodamente su Roma!
03 Dicembre 2025Il 68% degli adolescenti di un campione provvisorio di 4.000 non si arruolerebbe se l'Italia entrasse in guerra.
Tra ruolo istituzionale e retorica militante
02 Dicembre 2025Perché il caso delia relatrice Onu espone le contraddizioni della nostra democrazia contemporanea.
Un duello che non serve a nessuno
28 Novembre 2025Schlein e Meloni si sfidano a parole, ma nessuna vuole davvero rischiare.
