Il nodo irrisolto del Pd
La frattura riformisti-movimentisti pesa.
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La discussione che attraversa oggi il Pd non è un normale confronto interno: è il sintomo di un nodo identitario che il partito non è ancora riuscito a sciogliere dalla sua nascita. Ogni volta che emerge una leadership non perfettamente allineata al Dna originario, riaffiora l’antica domanda: che cos’è davvero il Pd? Un partito riformista di governo o una sinistra movimentista che si misura soprattutto sulle intenzioni più che sui risultati?
La segreteria Schlein ha scelto un posizionamento chiaro: puntare sul rapporto con il M5S, anche a costo di perdere pezzi nel campo moderato. È una strategia legittima, ma rischiosa. Perché in Italia il centrosinistra ha vinto solo quando ha saputo parlare al ceto medio, ai professionisti, agli elettori che pagano il grosso delle tasse e pretendono serietà, stabilità e competenza. Quella parte del Paese oggi è afona, spesso delusa, talvolta già emigrata nell’astensione.
Nel frattempo, i riformisti continuano a essere decisivi ogni volta che la democrazia permette di scegliere le persone prima dei simboli: raccolgono preferenze, trainano liste, portano voti che altrimenti non arriverebbero. Gli stessi voti che hanno permesso al Pd di evitare un risultato ben più modesto alle ultime europee. Ignorarli, o considerarli un fastidio, è un lusso che un partito che ambisce a governare non può permettersi.
Sullo sfondo si muove la vecchia guardia del centrosinistra, che continua a pesare come un’ombra lunga. Prodi rimane l’unico leader capace di aver sconfitto Berlusconi, e la memoria del suo riformismo pragmatico è ancora un riferimento per molti. D’Alema e Bertinotti, pur lontani dai ruoli operativi, continuano a influenzare il dibattito più di quanto sarebbe salutare per una forza che vuole apparire nuova.
Il quadro complessivo è un chiaroscuro: il Pd non è ancora riuscito a ricomporre un’identità che tenga insieme ambizione sociale e vocazione di governo. Lo scontro con i 5 Stelle, che rifiutano ogni alleanza non subordinata ai loro umori, complica ulteriormente il percorso.
La verità è che il centrosinistra non potrà tornare competitivo finché non ritroverà un equilibrio stabile tra anima riformista e sensibilità progressista. E questo equilibrio, oggi, non c’è: si intravede, ma non si vede.
Il rischio è che, mentre ci si divide sulla direzione, il Paese faccia le sue scelte senza aspettare che il Pd trovi la propria.
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