La riforma rischia di mettere il silenziatore agli avvocati
Tra i passi indietro che il disegno di legge delega rischia di imporre alla professione forense, uno riguarda la comunicazione.
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All’articolo 2, lettera e), il testo prevede che la disciplina dei principi generali dell’ordinamento forense stabilisca che “l’informazione sull’esercizio della professione dell’avvocato sia disciplinata in modo idoneo a tutelare l’affidamento della collettività e a garantire il rispetto del segreto professionale”.
Sembra innocuo. In realtà, è un campanello d’allarme.
Dopo che la legge 247/2012 aveva aperto timidamente alla comunicazione, si rischia ora d’imporre un modello opposto: non tutto ciò che non è vietato sarà consentito, ma solo ciò che sarà autorizzato. Non un passo indietro, ma un triplo salto nella direzione sbagliata.
Nel 2012 era stato introdotto un principio semplice: un avvocato può comunicare, nel rispetto di correttezza e verità. Blog, social, newsletter, personal branding: finalmente si poteva costruire reputazione senza permessi e senza essere già noti. La comunicazione poteva diventare strumento di democratizzazione della professione, riducendo il divario tra studi affermati e nuovi professionisti.
Ora, la riforma potrebbe dare agli organi di categoria il potere di decidere come, quando e cosa si può comunicare. È un cambio di paradigma radicale: si passa da una libertà vigilata a una vigilanza che decide la libertà. Non si tutela la riservatezza del cliente — già garantita dal codice deontologico e dalle buone pratiche della vastissima maggioranza dei professionisti — bensì si introduce un controllo sulla voce stessa della professione.
Chi ci guadagna? I grandi studi già noti, i professionisti consolidati, e chi gestisce il potere regolatorio. Chi ci perde? I giovani, le boutique specializzate, chi ha solo competenza e voglia di farsi conoscere. E anche i cittadini e le Pmi: avranno meno strumenti per scegliere il professionista giusto, costretti verso chi “si è sempre saputo”.
La comunicazione non è pubblicità aggressiva. È accesso, trasparenza, possibilità per il cittadino di leggere un articolo, ascoltare un podcast, seguire un contenuto online e valutare se quell’avvocato ha le competenze che cerca. Limitare la comunicazione in nome del “decoro” significa dire no al mercato. Sembra prudenza, ma è restaurazione. La vera domanda non è se gli avvocati debbano comunicare, ma se vogliamo una professione che parla, avvicinandosi ai cittadini e al mercato abbattendo le barriere informative, o preferiamo una professione che tace, sclerotizzando domanda e offerta. In un’epoca in cui le persone cercano risposte e contenuti, silenziare chi può fornirli non è tutela, ma un grave errore.
Di Nicola Di Molfetta Su Legalcomunity
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