Capiamo il valore della privacy quando in mezzo alla piazza siamo noi
Intervista con l’esperto, avvocato Marco Martorana: “Di altri diritti, come quello alla salute, si comprende subito l’importanza. Quello alla privacy lo cediamo noi stessi e violarlo ci pare poco grave. I giornalisti devono imparare quali sono i confini e a non superarli”.
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Lo scontro tra Report e il Garante per la privacy per sanzione dovuta alla diffusione di un audio privato tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e la moglie, la giornalista Federica Corsini, riapre il dibattito sul tema della riservatezza. Fino a che punto è sacrificabile. E perché si tende a ritenere, dentro e fuori il mondo del giornalismo e non solo, che sia un diritto minore? Ne abbiamo parlato con Marco Martorana, avvocato che si occupa di privacy, autore di diverse pubblicazioni sul tema e fondatore di Assodata.
Il diritto alla privacy, A non vedere i fatti propri diffusi su pubblica piazza, è considerato un diritto minore. Dall’opinione pubblica e, a volte, anche dai media. Perché?
Bisogna distinguere. I media hanno, nell’ambito delle leggi sulla privacy, la possibilità di trattare i dati anche in modo diverso rispetto a quello che avviene in tutti gli altri casi. Perché il diritto di cronaca è un diritto costituzionalmente garantito. Il singolo cittadino, però, spesso non ha un’attenzione nei confronti della riservatezza. Si tende a ritenere che nel momento in cui in ballo ci sono i dati degli altri, ho diritto di vedere tutto, di sapere tutto: il mondo deve essere trasparente. La situazione si ribalta nel momento in cui i dati e le informazioni che vengono gestite sono le nostre. Solo in quel momento, da vittime, ci si rende conto che c’è una violazione.
Come si può cambiare questa percezione?
Con la formazione: facendo capire che se una violazione della privacy avvenisse nei propri confronti darebbe fastidio. E che, per questo, bisogna evitare di trattare in modo scorretto i dati degli altri. Un caso emblematico riguarda le violazioni della riservatezza sul posto di lavoro: il datore di lavoro si può sentire in qualche modo legittimato a fare controlli, ricerche, verifiche, sui suoi dipendenti. Siccome è tecnicamente possibile, ed è anche facile farlo, non si pone un problema di correttezza.
È facile, ma non sempre è lecito. Ma perché si tende a pensare che la privacy sia sacrificabile?
Perché la riservatezza viene ceduta in modo volontario. Spesso è il diretto interessato a dire sì all’utilizzo dei suoi dati. Pensiamo ai contenuti sui social: il condividere contenuti, pensando che ci si limiti a postare una fotografia o un video senza capire che le società di big tech possono estrapolare altri dati, equivale a mettere la propria vita online. Ma ci sono anche altri campi in cui si dice sì inconsapevolmente alla cessione dei dati. Quando, ad esempio si vuole un finanziamento, un lavoro, un’assicurazione sulla vita. Siccome quel bene interessa, la persona che dà il consenso al trattamento dei dati non è consapevole che potrebbe non farlo. Potrebbe non cedere quei dati e, se decidesse in questo senso, sarebbe tutelata.
Ma perché per altri diritti non c’è questa leggerezza?
Perché per diritti come quello alla salute c’è più immediata comprensione – nessuno metterebbe mai, ad esempio, la salute in pericolo volontariamente – per la privacy non si ha questa consapevolezza. Nessuno si causerebbe un infortunio per far divertire gli altri. Nessuno, invece, pensa che fare una fotografia e metterla sui social può portare a una lesione della propria privacy. La salute è universalmente riconosciuta come un bene primario, la privacy online no perché i social prima non c’erano. Bisogna fare cultura: spiegare che il diritto alla privacy è un diritto che non deve essere sottovalutato, non dobbiamo considerarlo come un diritto secondario.
La relazione tra privacy e social è qualcosa di molto recente. Eppure ci sono dei diritti connessi alla riservatezza che sono datati tanto quanto il diritto alla salute, per restare al suo esempio. La Costituzione tutela la riservatezza della corrispondenza.
Certo, in questo caso, forse sono gli strumenti che cambiano la percezione. Stare dietro uno schermo in certi casi stimola la deresponsabilizzazione. Leggere l’email del collega viene considerato meno grave rispetto a prendere la corrispondenza fisica, cartacea, di una persona, aprirla e leggerla. Nel secondo caso ci si rende conto che le attività che si fanno non sono innocue, dietro lo schermo no. È un po’ come quando dal vivo si ha qualche remora a litigare e, invece, online ci si sente liberi di farlo, perché si pensa che dietro lo schermo siamo coperti dai nickname.
E, quindi, si finisce per ritenere normale la pubblicazione di contenuti molto riservati. Come, per esempio, una conversazione privata tra due persone.
Esatto, il concetto è proprio quello, sull’online abbiamo questo calo di attenzione, questo presunto calo di responsabilità che, però, non corrisponde alla realtà.
Accennava prima ai media. Come si rapporta il giornalismo con il diritto alla riservatezza?
Sul diritto di cronaca i passaggi sono un po’ più delicati perché siamo in un altro mondo.
Però anche lì ci sono dei confini.
Certo. Il garante per la Privacy ci dice che se il dato riservato è essenziale ai fini dell’informazione, possiamo anche pubblicarlo. Se, invece, lo stesso risultato di informare i cittadini può essere ottenuto anche senza la sua divulgazione, allora non bisogna usarlo. Nel caso dei minori, ovviamente, l’attenzione deve essere maggiore. Ma anche quando si tratta di adulti bisogna stare attenti a non abusare di quegli di quegli elementi che magari aumentano l’audience o le copie di un giornale, però comportano il sacrificio del diritto della riservatezza di un altro soggetto. E questo vale sempre. Anche quando i protagonisti del servizio giornalistico sono soggetti conosciuti e importanti. Vale la pena precisare che la linea a volte è molto sottile e non è così semplice valutare dove si trova, esattamente, il confine. Ma è una valutazione che il giornalista professionista deve saper fare.
Il caso della sanzione alla Rai per la puntata di Report su Sangiuliano è emblematico. Che idea si è fatto della decisione del Garante?
Nel provvedimento si sostiene che l’informazione avrebbe potuto essere data anche senza la diffusione di quell’audio. L’obiettivo sarebbe stato raggiunto ugualmente.
A lei sembra che i giornalisti, in generale, riescano a discernere quando bisogna tutelare il diritto alla riservatezza e quando prevale il diritto di cronaca, oppure i servizi in cui vengono diffusi audio, foto, conversazioni che non aggiungono niente sono troppi?
Diciamo che in molti casi ci sono informazioni che potrebbero essere non incluse. Però sono le stesse che catturano quell’attenzione in più che serve a far aumentare la curiosità. Guardare in casa degli altri interessa sempre il pubblico.
Qui, però, rientra in campo il ruolo del giornalista. Che, una volta assicurato il dovere di cronaca, dovrebbe capire quando è il caso di fermarsi.
Il giornalista dovrebbe rendersi conto dove sta il limite, anche se non è sempre un passaggio così banale, perché la valutazione va fatta volta per volta. Di base, il giornalista dovrebbe sempre farsi una domanda.
Quale?
Diffondere questi contenuti riservati è essenziale per informare il cittadino o posso raggiungere l’obiettivo anche in un modo meno limitante dei diritti del soggetto interessato? Se si possono ottenere gli stessi risultati, bisognerebbe scegliere la formula che comporta meno rischi agli interessati.
Si tratta di rischi sottostimati?
A volte può succedere. A volte si ritiene che la notizia data in modo un po’ più forte, anche con conversazioni, intercettazioni, elementi privati ma non essenziali ai fini dell’informazione, aiuti a vendere. Però a essere garantito è il diritto di cronaca, che è un’altra cosa. La nostra Costituzione prevede il diritto di informare e di essere informati. Non il diritto a vendere più copie.
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