La sinistra riparte da Francesca Albanese?
Sindaci in processione per darle cittadinanze onorarie, studenti in occupazione che la venerano, Schlein che balbetta e la piazza che non le appartiene più. La nuova icona parla di Palestina e risveglia una sinistra che dormiva — ma a chi risponde davvero?
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C’è qualcosa di ironicamente biblico nella resurrezione politica che una parte della sinistra italiana sta cercando tra le parole di Francesca Albanese. In mancanza di una visione, di un programma o di una lingua comune, ecco arrivare la profetessa laica, la giurista dell’ONU, a offrire alla sinistra un rifugio morale dopo anni di afasia e di terrore d’opinione. E la cosa più sorprendente è che non serve più la tessera, basta un applauso ben calibrato all’“intifada” pronunciata a mezza voce.
Sindaci, presidenti di provincia, assessori col fazzoletto rosso nel cassetto: tutti in fila a proclamare la cittadinanza onoraria di Albanese, come se la gratitudine per un atto simbolico potesse lavare anni di imbarazzi, silenzi e mezze parole. La sinistra dei palazzi, che non riesce a nominare il disagio sociale nel suo stesso elettorato, trova ora la sua parola d’ordine nella Palestina: un tema lontano, ma politicamente sicuro, perché permette di indignarsi senza pagare dazio sui temi concreti — sanità, salari, scuola, industria. È un esilio comodo nella purezza morale.
Albanese parla di genocidio, e lo fa con il tono che la diplomazia finge di non capire e i movimenti invece adorano. Ma il suo successo non è soltanto nella radicalità del messaggio: è nella fame di identità di una sinistra che non sa più a chi rivolgersi, né cosa dire. Elly Schlein — stretta tra un governo inesorabile e una base inquieta — appare come un’ospite timida nella casa che un tempo era sua. Albanese invece entra dalla porta principale, parla la lingua dell’urgenza, evoca la storia, cita il diritto internazionale come fosse poesia civile. E così conquista il cuore delle piazze dove, tra striscioni e parole proibite, il confine tra resistenza e retorica si fa sottile come un filo di microfono.
Ma la domanda resta: può la sinistra italiana affidarsi a una figura che parla da Ginevra e incarna un conflitto che non è il suo? È questa la ripartenza, o soltanto l’ennesima fuga nel mito, nella moralità senza progetto? Forse il fascino di Francesca Albanese sta tutto qui: nella promessa di una purezza perduta, nel miraggio di un’innocenza politica che la sinistra non ha più. Ma la storia — e la politica — non si fanno con le coscienze pulite. Si fanno con le mani sporche di realtà.
E quelle, da queste parti, scarseggiano sempre.
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