Le piazze sono piene ma Meloni è salda
Davanti alle manifestazioni indignate, l’anomalia è la premier che (a differenza di ogni suo predecessore) guadagna consensi.
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Le piazze stracolme di indignazione farebbero immaginare l’Italia intera che si ribella e non vede l’ora di cacciare il governo. La protesta riguarda Gaza, è vero, ma nessuno potrebbe negare che nel mirino ci sia pure Giorgia Meloni, accusata di reggere il sacco a Benjamin Netanyahu, criminale di guerra. Una rivolta di così vasta portata, insomma, con migliaia di iniziative spontanee e milioni di manifestanti dovrebbe segnalare senza dubbio un divorzio tra il Paese e la sua attuale leadership, quantomeno la fine dell’infatuazione per la donna sola al comando. Tanto più che dalle ultime elezioni politiche sono già passati tre anni e di regola, quando si cominciano a tirare le somme, a misurare la distanze tra le parole e i fatti, emergono i maldipancia.
Ha sempre funzionato così, nella Seconda Repubblica: gli entusiasmi muoiono in fretta, dopodiché nasce lo scontento. Non si è salvato nessuno dei governanti, fossero Silvio Berlusconi o Matteo Renzi, Mario Draghi o Romano Prodi. Alle illusioni che ne avevano accompagnato l’avvento con tanto di fanfare sono subentrate, puntuali, le delusioni. Per cui, sommando insieme il tempo già trascorso a Palazzo Chigi e le masse in tumulto, le promesse mancate e gli scioperi generali, sarebbe logico immaginarsi Giorgia cotta a puntino, in caduta libera nei sondaggi, a picco rispetto al 25.98 per cento che i Fratelli d’Italia avevano registrato alla Camera nel 2022. Ed ecco invece la sorpresa, buona o cattiva dipende dai punti di vista: il consenso della premier non è crollato. Non ancora, perlomeno. Secondo l’ultima Supermedia di YouTrend, che mette insieme le varie rilevazioni sparse, il partito meloniano vale il 30 per cento dei voti, quattro punti in più di tre anni fa.
Questa crescita dei FdI ha trainato l’intero centrodestra che, sempre secondo YouTrend, viaggia adesso intorno al 48,5 per cento, a un passo cioè dalla maggioranza assoluta, con il Campo largo nello specchietto retrovisore. Il fenomeno non è normale, tantomeno scontato. Anche solo per individuarne le cause, meriterebbe un approfondimento serio specie da parte di chi si trova oggi all’opposizione, dunque spera di invertire il trend: com’è possibile che in tutto questo ribollire di popolo, e a dispetto delle previsioni che le davano al massimo un paio d’anni prima di venire a noia, Meloni si trovi ancora saldamente in sella? Cosa le permette di posticipare l’inevitabile logoramento? Merito suo, demerito altrui ovvero un mix di entrambi questi fattori?
Di sicuro la premier non ha fatto nulla, finora, di cui scrivere a casa. Si è dedicata ai summit internazionali, com’era giusto e doveroso visto l’andazzo mondiale. Delle sue famose riforme non vi è traccia. Al massimo una frotta di nuovi reati con annessi aumenti di pene, oltre a qualche tentativo fallito di combattere l’immigrazione clandestina (vedi l’aborto albanese, di cui più nemmeno si parla). L’agricoltura è stata colpita dai dazi, il Pil ristagna, l’occupazione cresce però soltanto tra gli anziani, gli stipendi restano una miseria, la prossima legge finanziaria elargirà qualche spicciolo non essendoci il becco di un quattrino, salvo rapine del governo alle banche. A pensarci bene, l’unico vero risultato di Meloni in campo economico è di avere stretto la cinghia. Di avere tenuto i conti a posto volando più basso delle attese.
È uscita un’intrigante analisi dell’Handelsblatt, il principale quotidiano economico tedesco, che sviluppa esattamente questa tesi: contro ogni aspettativa, la premier si è moderata; da minaccia populista qual era agli esordi oggi incarna una forza conservatrice. Non ha rimesso in piedi il fascismo, non ha nemmeno sfasciato l’Europa come si temeva e, pur senza rinunciare agli eccessi verbali, ha costruito il proprio capitale politico sulla prudenza. Sul non fare passi più lunghi della gamba. Addirittura, molto esagerando, Handelsblatt paragona Meloni alla Merkel; scopre in Giorgia tratti di equilibrio che la accomunano ad Angela, statista tranquilla per definizione. Seguendo questa chiave interpretativa – discutibile ma con tratti di vero – la nostra premier predica male però razzola bene praticando un sano, a volte cinico pragmatismo. Si trattiene contro la sua stessa natura.
Risultato: pur senza combinare granché (e forse proprio per questo) Meloni tranquillizza quella parte maggioritaria del Paese che ama il quieto vivere, detesta le avventure, sbarca il lunario, tira a campare, bada agli affari suoi, coltiva il proprio orticello, simpatizza emotivamente per Gaza ma fino a un certo punto, soprattutto non vuole subire ricaschi delle sofferenze altrui. Un’Italietta miserabile, egoista finché si vuole, senza sogni di gloria, che teme il peggio e, impaurita, desidera restarne fuori. Di questo mondo che rinuncia al meglio pur di evitare il peggio, che difende certi piccoli privilegi, che pensa in piccolo anziché in grande, Meloni è la più fedele interprete perché proviene da quel contesto, ne respira gli umori, ne asseconda gli istinti meglio degli avversari.
Rifletterci vale la pena. Se questa suggestione fosse fondata e spiegasse come mai il consenso per la premier aumenta anziché calare, e il suo blocco sociale non è stato minimamente scalfito, ciò vorrebbe dire che mobilitare le piazze non è la risposta. Che radicalizzandosi, o dandone l’impressione, la sinistra fa il gioco di lei, di Meloni, l’ex pericolo pubblico, trasformadola suo malgrado in una “Merkel
de’ noantri”.
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