Qualcosa va cambiato. E non è complottismo.
C'è una dinamica ormai evidente: una parte della magistratura sembra intervenire ogni volta che la politica prova a rialzare la testa.

È una sorta di riflesso condizionato. Non è una teoria del complotto, è un dato di fatto che dovrebbe far riflettere.
Pensiamo a quanto accaduto nel recente passato: l’assurdo processo per sequestro di persona a carico di un ministro che aveva semplicemente bloccato una nave – che, peraltro, aveva alternative di attracco. Allora non ci furono dieci articoli al giorno a difesa degli imputati. Oggi invece, con l’inchiesta che colpisce una giunta di sinistra, si assiste a una vera e propria potenza di fuoco mediatica contro la magistratura. Due pesi, due misure?
Non entro nei dettagli dell’indagine milanese – non ho accesso ai fascicoli né pretendo di giudicare – ma vale forse la pena ribaltare il punto di vista. Non sarà che, con il cambio al vertice della procura, alcuni PM si siano finalmente accorti che qualcosa non funzionava nel sistema immobiliare della città? Che quel meccanismo, pur operando “alla luce del sole”, funzionava secondo logiche che meritavano un approfondimento?
Siamo sicuri che questa reazione sia “eversiva”, o è solo tardiva?
Forse serve ripensare profondamente la formazione dei magistrati. Un’esperienza esterna al perimetro giudiziario – nella pubblica amministrazione, nel privato, nel tessuto vivo del Paese – potrebbe aiutarli a comprendere meglio la complessità delle dinamiche che sono chiamati a giudicare. Applicare il diritto senza contestualizzarlo può trasformare lo strumento in un’arma spuntata, o peggio ancora, in un martello che scambia ogni struttura per un chiodo.
Il diritto serve a regolare la società, non a fermarla.
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