PROFESSIONISTI SOTTO ASSEDIO: LO STATO SOSPETTA PRIMA DI PAGARE
Ogni parcella diventa un ostacolo, ogni fattura una prova di innocenza: la nuova norma trasforma chi lavora per la Pa in un sospettato permanente.
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Avvocati, medici, tecnici, consulenti: chi serve lo Stato oggi deve dimostrare ogni mese di essere degno di ricevere il compenso per il proprio lavoro. Con la manovra 2026, la certificazione fiscale e contributiva diventa la condizione obbligatoria per ottenere un pagamento, non un diritto. Il professionista non è più lavoratore, ma prigioniero di un controllo burocratico senza precedenti: pagato solo se “meritevole” agli occhi dell’amministrazione. Una stretta che ordini e associazioni definiscono vessatoria, discriminatoria e punitiva, un attacco diretto a chi già porta avanti incarichi fondamentali per il funzionamento dello Stato.
La manovra economica 2026 ha acceso un nuovo fronte di tensione tra Stato e professionisti. L’ultima riformulazione firmata dal ministero dell’Economia e delle Finanze ha trasformato quella che era una misura già contestata in una vera e propria tagliola: il pagamento delle parcelle ai professionisti che lavorano per la Pubblica amministrazione sarà bloccato se non sarà accompagnato dalla certificazione della piena regolarità fiscale e contributiva, al momento stesso della fatturazione. Non solo: il divieto si estende anche a tutti gli emolumenti riconosciuti da soggetti privati quando il compenso è “a carico dello Stato”. Un ingranaggio che, secondo gli ordini professionali e le associazioni di categoria, rischia di trasformare ogni incarico pubblico in un percorso ad ostacoli burocratici, penalizzando chi lavora correttamente.
Il primo a reagire era stato il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, già il 28 ottobre scorso. In una nota definiva la norma “vessatoria e discriminatoria nei confronti dei liberi professionisti”. Il suo punto era chiaro: i lavoratori dipendenti, anche se inadempienti ai propri obblighi fiscali, mantengono il diritto alla retribuzione. Ai professionisti, invece, lo Stato nega il pagamento del lavoro già svolto. Una disparità evidente, che il presidente Greco ha bollato come ingiusta e inconcepibile.
A queste critiche si è aggiunto il fronte delle casse previdenziali private. Alberto Oliveti, presidente dell’Adepp e dell’Enpam, ha sottolineato che la lotta all’evasione è meritoria e improcrastinabile, ma non può diventare uno strumento discriminatorio. “Non possono esserci due sistemi di diritti: uno per i lavoratori subordinati e uno per gli autonomi”, ha dichiarato, chiarendo che se la norma introduce discriminazioni, va modificata senza esitazioni. La denuncia è forte: il principio di equità fiscale non può giustificare una disparità di trattamento che penalizza sistematicamente una categoria di lavoratori.
Non meno durissima è stata la presa di posizione di Confcommercio Professioni. La presidente Anna Rita Fioroni ha parlato di “prova diabolica”: un onere documentale che non esiste per nessun altro e che, applicato a chi lavora con la Pubblica amministrazione, diventa una barriera quasi insormontabile. “Avevamo chiesto la soppressione della norma contenuta nella Legge di Bilancio”, ha dichiarato Fioroni, “e invece ci ritroviamo una versione ancora più stringente. Il professionista deve produrre la documentazione comprovante la regolarità fiscale contestualmente alla presentazione della fattura: una condizione vessatoria, senza precedenti.”
Già oggi, infatti, esiste una misura che inibisce il pagamento di somme superiori a 5.000 euro se il professionista ha importi iscritti a ruolo. Ma la nuova norma non si limita a questo: trasforma il principio di “pagamento condizionato” in un obbligo preventivo permanente, che espone ogni professionista a blocchi e ritardi non per colpe proprie, ma per una logica amministrativa sospettosa e burocratizzata.
Sul fronte politico, alcuni esponenti della maggioranza avevano lasciato filtrare la possibilità di modifiche. Le promesse di ammorbidimento, però, si sono infrante contro la versione definitiva della norma: più controlli, più rigidità, più potere affidato alla Pubblica amministrazione di trattenere compensi già dovuti. Un messaggio chiaro: chi lavora per lo Stato non è più un collaboratore, ma un sospettato.
Il rischio concreto è duplice. Da un lato, la norma rischia di paralizzare settori già fragili, dalla giustizia alla sanità, dall’ingegneria alla consulenza tecnica, rallentando progetti e servizi pubblici fondamentali. Dall’altro, trasmette un principio pericoloso: il lavoro va riconosciuto non per il valore o l’impegno, ma per la “certificazione preventiva” che ne legittima la ricezione. Un meccanismo che mina la fiducia reciproca tra Stato e professionisti e alimenta contenziosi, inefficienza e frustrazione.
Gli ordini professionali non si limitano a denunciare la norma: lanciano un avvertimento forte e chiaro. Se il principio è che chi non è perfettamente in regola non deve essere pagato, allora la regola deve valere per tutti, a partire dai vertici ministeriali fino ai dirigenti delle partecipate. Altrimenti, sottolineano, non si tratta di equità fiscale, ma di una misura mirata a colpire il bersaglio più esposto e più facile: il professionista autonomo.
Il risultato è un Paese spaccato, con decine di migliaia di professionisti sul piede di guerra e una macchina pubblica che si mette a fare da controllore permanente. Una frattura che rischia di avere conseguenze ben oltre la singola parcella: rallentamenti nei servizi, inefficienza nei cantieri, blocchi nei processi, contenziosi legali e, soprattutto, un principio di sospetto istituzionale che mina alla base il rapporto tra Stato e chi serve lo Stato.
La stretta del Mef non è una semplice misura tecnica. È un segnale politico: chi lavora per la Pa deve dimostrare di meritare il pagamento, prima ancora di riceverlo. E se il governo non correggerà la norma, non sarà solo una misura contestata: sarà una frattura profonda tra Stato e professionisti, tra regole e giustizia, tra lavoro e riconoscimento. Una frattura che il Paese rischia di pagare cara.
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