Assalto respinto.
Le Marche restano a Meloni

La prima tornata dei voti d’autunno conferma la resilienza del centrodestra, che a tre anni dal voto delle politiche non vede calare i consensi. Fallisce il ribaltone in cui sperava Schlein per aprire un autunno di riscossa. Ricci zavorrato dall’inchiesta di Affidopoli, da un campo largo che resta una sommatoria di liste, e dall’inconsistenza a livello locale di M5s
Nessuna sorpresa. La prima tappa del giro delle regionali se la aggiudica il centrodestra. Non ci sono stati ribaltoni in quella che poteva configurarsi come una delle poche novità autunnali. Con Veneto e Calabria che veleggiano -da pronostici – verso una riconferma del centrodestra e Campania, Puglia e Toscana in cui la partita sembra più che altro tutta interna al centrosinistra e alle alchimie del campo largo, nelle Marche si addensavano le principali speranze del Partito democratico di strappare una casella agli avversari.
Obiettivo fallito. Francesco Acquaroli si conferma per un nuovo quinquennio, rimane al palo il dem Matteo Ricci. Certo, la forchetta dei dodici punti percentuali con la quale il candidato meloniano distanziò cinque anni fa il competitor di allora, Maurizio Mangialardi, si è quasi dimezzata (i 5 stelle allora fecero gara a sé), ma sono numeri utili per le statistiche e poco più.
La rincorsa di Ricci era partita bene, con sondaggi che lo accreditavano possibile vincitore, o per lo meno in grado di tenere testa a Acquaroli fino all’ultima scheda. Poi qualcosa è andato storto. A partire dalla notizia di indagine deflagrata a due giorni dalla presentazione delle liste, quella ribattezzata “Affidopoli” che vede l’ex sindaco di Pesaro coinvolto in un’indagine per presunta corruzione negli appalti del Comune. Un brutto colpo sull’immagine del candidato, da subito blindato dalla sua segretaria Elly Schlein ma rosolato sulla graticola del tribunale 5 stelle, che lo ha lasciato per giorni in sospeso salvo poi decretare la sua innocenza per bocca dell’avvocato del popolo, Giuseppe Conte.
Zavorrato ai blocchi di partenza – anche dallo sfilarsi di Carlo Calenda e di Azione – Ricci ha perso lo slancio, e l’umore nel campo largo nelle ultime settimane si è fatto via via più cupo. Il contentino della lista del Pd – in parte drenata dalla civica che portava il nome del presidente – che si conferma sui numeri delle ultime elezioni politiche non basta, e probabilmente non è un caso che i 5 stelle al contrario dimezzino i voti. “Difficile per noi portare alle urne la nostra gente per un candidato di un altro partito, per di più indagato”, dice una fonte pentastellata.
In caso di vittoria, Schlein avrebbe provato a trasformare l’elezione locale in un trend nazionale. La resilienza del centrodestra ne ha frustrato i piani. Tira sicuramente un sospiro di sollievo Giorgia Meloni. Partire di slancio per una tornata che prevede la Calabria andare al voto la prossima settimana e la Toscana tra due (prima dell’election day di novembre con Veneto, Campania e Puglia) era fondamentale per la premier, e per gli equilibri generali della coalizione.
La vittoria di Acquaroli da settimane era indicata anche come la condizione necessaria per un via libera di Fratelli d’Italia a un candidato leghista in Veneto. Non è un caso che la primissima dichiarazione a risultati consolidati di Andrea Crippa, deputato di stretto rito salviniano, sia suonata più o meno come “bene le Marche, ora il Veneto resti a noi”. Probabilmente sarà così, la prima casella di un domino che si sta inclinando sul versante giusto. Perdere la Regione avrebbe significato una certa fibrillazione con gli alleati, senza contare quella che sarebbe potuta essere una brutta battuta d’arresto per FdI. Che invece conferma la lista del partito – al netto dei voti dispersi nelle civiche – poco lontana dal 29% che incassò alle politiche, lasciando a più di quindici punti percentuali gli alleati in camicia verde e Forza Italia (breve cartolina da un passato che non c’è più: nel 2020 il Carroccio era la prima forza della coalizione con quasi il 23%).
Alla fine della giornata e digerite le più prevedibili dichiarazioni di rito, emergono due elementi utili come spunto di riflessione per il futuro. Guardando al campo largo, non si può non osservare come, almeno a livello locale, il Movimento 5 stelle fatichi ad essere un valore aggiunto per la coalizione. Un trend che magari potrà essere invertito dalla Calabria e dalla Campania, dove la lista potrebbe essere trainata da due candidati pentastellati Pasquale Tridico e Roberto Fico, ma che fino ad oggi è stata una costante che rende l’impatto degli uomini di Conte in sede di trattative e composizione degli equilibri preelettorali assai più sovradimensionato rispetto ai risultati effettivi.
In casa centrodestra il dato più significativo è l’insospettabile resilienza della coalizione. A tre anni dal voto politico sarebbe stato lecito aspettarsi una flessione, un logorio derivato da tre anni di governo, di promesse non mantenute o rispettate a metà, di effetti della litigiosità degli alleati sulla gente. E invece FdI, Forza Italia e Lega continuano a veleggiare su una base di consensi che sembra consolidata e refrattaria all’erosione, aiutati anche dalle geometrie variabili di opposizioni che non riescono a costituirsi come alternativa di governo valida. E che anche quando lo fanno, come successo nelle Marche, faticano a scrollarsi di dosso l’idea un po’ posticcia di sommatorie di liste che convolano a nozze per l’interesse del momento. Le Marche sono un indicatore parziale, certo, ma sono l’ennesimo indicatore parziale. E le elezioni non sono poi così lontane.
di Pietro Salvatori su Huffpost
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