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Spazzacorrotti: «La retroattività trasforma la natura della pena»

Le ragioni della Consulta sull’incostituzionalità dell’applicazione retroattiva della legge

Spazzacorrotti: «La retroattività trasforma la natura della pena»

Se al momento della sua commissione, per un reato è prevista una pena “fuori”dal carcere, non è possibile trasformarla in una pena da scontare “dentro” il carcere con una legge successiva.  La differenza è qualitativa, oltre che quantitativa, perché quella pena va ad incidere profondamente sulla libertà personale. È quanto si legge, in buona sostanza, nelle motivazioni della decisione presa il 12 febbraio scorso dalla Consulta, che si è pronunciata sull’applicazione retroattiva della Spazzacorrotti. Motivazioni depositate oggi, proprio nel giorno in cui la Corte costituzionale tratterà nuovamente le questioni di legittimità relative alla legge 3 del 2019, in particolare l’inserimento dei reati di peculato e induzione indebita tra quelli che impediscono la concessione di benefici alternativi alla detenzione per chi, condannato, non collabora. Secondo il  diritto vivente, affermano i giudici, le norme disciplinanti l’esecuzione della pena sarebbero, in radice, «sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena di cui all’articolo 25, secondo comma, della Costituzione». Ma plurime ragioni, evidenziano i giudici, «inducono, tuttavia, a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali». Ciò in quanto, di regola, si legge nelle motivazioni, «le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’articolo  25, secondo comma, della Costituzione». Nel caso in questione, dunque, per tutta una serie di reati contro la pubblica amministrazione la legge bandiera del Movimento 5 Stelle comporta «una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato, quanto agli effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Conseguentemente, l’applicazione della disposizione censurata ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto» imposto dalla Costituzione.E considerato il silenzio del legislatore «sul regime intertemporale delle modifiche in esame», la soluzione, afferma la Consulta, «è la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata così come risultante dal diritto vivente». Già all’indomani dell’entrata in vigore la legge era stata messa in discussione da alcune pronunce di merito, che l’hanno ritenuta inapplicabile ai fatti di reato pregressi, «dal momento che ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura “sostanzialmente penale”, secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con conseguente sua soggezione al divieto di retroattività sfavorevole». E i giudici della Consulta valorizzano proprio le pronunce della Cedu, in particolare la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa nel 2013, quando la Grande Camera «ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’articolo 7 Cedu, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice”». Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato». Ovvero «la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto». E il principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, opera, appunto, come «uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto». Ma non solo: la “Spazzacorrotti” ha reso anche più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, per cui «una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive, esponendo l’imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell’esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili».

Da Il Dubbio

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