La separazione delle carriere nella magistratura: necessità o rischio?
La questione della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri rappresenta uno dei temi più delicati e controversi del dibattito sulla giustizia italiana.
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Oggi, in Italia, magistrati giudicanti e requirenti appartengono allo stesso corpo e sono soggetti alle stesse garanzie di indipendenza. Tuttavia, molti ritengono che la divisione delle carriere sia un passo necessario per garantire una giustizia più equa, trasparente e rispettosa del principio di terzietà del giudice.
Chi sostiene la necessità della separazione delle carriere parte da un principio fondamentale: il giudice deve essere terzo rispetto alle parti del processo.
Nel sistema attuale, giudici e pubblici ministeri condividono la stessa formazione, lo stesso concorso di accesso e lo stesso organo di autogoverno (il Consiglio Superiore della Magistratura).
Questo legame strutturale può alimentare la percezione — se non il rischio reale — di una “vicinanza culturale” tra giudice e accusa, che potrebbe minare la fiducia del cittadino nella piena imparzialità del processo.
Inoltre, in un sistema di tipo accusatorio, come quello introdotto dal codice di procedura penale del 1989, l’accusa e la difesa devono confrontarsi su un piano di parità davanti a un giudice neutrale.
Separare le carriere servirebbe quindi a rendere più chiari e distinti i ruoli:
il pubblico ministero rappresenta l’interesse dello Stato nella repressione dei reati;
il giudice rappresenta l’interesse della legge e della verità.
La divisione renderebbe anche i due soggetti reciprocamente indipendenti, evitando ogni influenza nei percorsi di carriera o nelle valutazioni professionali.
Chi si oppone alla separazione delle carriere, invece, vede in questa proposta un potenziale rischio per l’autonomia della magistratura.
Attualmente, l’unità della carriera garantisce che anche il pubblico ministero sia indipendente dal potere politico.
In molti ordinamenti dove le carriere sono separate (come in Francia o negli Stati Uniti), il PM è gerarchicamente dipendente dal Ministero della Giustizia: ciò può compromettere la sua libertà di iniziativa e la sua imparzialità.
Inoltre, la cultura comune tra giudici e PM è considerata da alcuni una ricchezza del sistema italiano, poiché assicura che entrambi agiscano mossi da un medesimo spirito di giustizia, e non da logiche di contrapposizione.
La separazione, dunque, rischierebbe di snaturare l’unità della magistratura, sancita dall’articolo 104 della Costituzione, e di esporre il sistema giudiziario a pressioni esterne.
Il dibattito sulla separazione delle carriere riflette due esigenze entrambe legittime:
da un lato, la terzietà del giudice, cardine del giusto processo (art. 111 Cost.);
dall’altro, l’indipendenza della magistratura come baluardo contro l’ingerenza politica.
Una riforma efficace dovrebbe riuscire a bilanciare questi principi, evitando sia la confusione di ruoli sia la subordinazione di una parte del sistema giudiziario al potere esecutivo.
In conclusione, la separazione delle carriere non è solo una questione organizzativa, ma un nodo costituzionale e culturale.
Essa richiede una riflessione profonda sul modello di giustizia che si vuole costruire: una giustizia più imparziale e trasparente, ma anche autonoma e indipendente da ogni potere esterno.
La sfida è trovare un equilibrio che salvaguardi entrambi questi valori, evitando che la riforma diventi uno strumento politico anziché un passo verso una giustizia realmente al servizio dei cittadini.
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