Sì allo stato di Palestina, ma non subito
Intervista all'ex segretario generale della Farnesina Giampiero Massolo: "Farlo adesso priverebbe la comunità internazionale di un importante strumento negoziale. Bene la condanna di Hamas da parte di Egitto e Arabia Saudita, ma ora facciano seriamente pressione: non c'è dopoguerra se c'è ancora Hamas a Gaza".
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Massolo, prima il presidente francese Emmanuel Macron. Poi ieri il premier britannico Keir Starmer. Mentre ieri anche Canada e Australia hanno detto che valutano il riconoscimento dello Stato di Palestina. Che cosa pensa di questa spinta ormai diffusa, all’interno della comunità internazionale?
Intanto c’è da notare che buona parte di questi riconoscimenti sono in qualche modo condizionati. Nel caso del Regno Unito, Starmer ha chiarito che il riconoscimento dello Stato di Palestina avverrà a meno che Israele non accetti il cessate il fuoco a Gaza. Almeno una parte di questi riconoscimenti hanno carattere strumentale, hanno come obiettivo quello di condurre verso un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Indubbiamente, questi riconoscimenti, nelle intenzioni di chi li propone, hanno anche un significato politico, nel senso che di fronte ad una situazione a Gaza terribile dal punto di vista umanitario, la riaffermazione del principio e dell’attaccamento al principio del diritto dei palestinesi ad avere uno Stato ha un significato politico. Mi pongo tuttavia una domanda…
Quale?
Se il riconoscimento dello Stato di Palestina abbia una valenza reale per quanto riguarda l’obiettivo di fondo, ovvero arrivare ad una stabilizzazione in Medio Oriente.
E il riconoscimento dello Stato di Palestina favorisce questa stabilizzazione?
Credo che più che aiutare verso l’obiettivo della stabilizzazione, questi riconoscimenti dello Stato di Palestina privino la comunità internazionale di uno strumento negoziale importante. Il riconoscimento rientra infatti in un processo che porta verso una soluzione complessiva per la regione mediorientale, dove ciascuna delle parti coinvolte riceve qualcosa. Nel caso di Israele la sicurezza. L’Arabia Saudita – che è fondamentale in qualsiasi processo di stabilizzazione, perché dipende dall’Arabia il ripristino degli Accordi di Abramo – vuole avere dagli Stati Uniti un accordo di sicurezza e di difesa ed esige che gli Usa le garantiscano un proprio programma di nucleare civile. In questo processo di riconoscimento anche ai palestinesi occorrerà dare qualcosa, non solo un miglioramento della situazione economica, ma anche un riconoscimento del loro status.
Quindi si rischia di bruciare già ora una carta negoziale che invece servirà nel più ampio processo di normalizzazione delle relazioni regionali.
Se gli elementi del futuro assetto complessivo del Medio Oriente comprendono anche il riconoscimento dello status dei palestinesi, ecco che giocarsi ora la carta del riconoscimento rischia di essere un atto perdente in futuro, perché ci si toglie dalle mani un importante strumento negoziale. In questo momento alcuni Paesi ritengono prevalente l’esigenza politica e l’azione di pressing nei confronti di Israele. Io ritengo invece che andrebbe considerato con maggiore attenzione il rischio – in nome di un principio – di indebolire la prospettiva di un assetto nuovo.
Lei non ha firmato la lettera inviata alla premier Giorgia Meloni sottoscritta da 40 ex ambasciatori e diplomatici italiani. Come dovrebbe muoversi, a suo parere, l’Italia?
Non ho firmato quella lettera esattamente per le ragioni che le ho spiegato prima. Che cosa deve fare l’Italia? Il passaggio da una fase senza prospettiva in Medio Oriente, ad una fase virtuosa, e cioè che vira verso il riavvio degli Accordi di Abramo – che corrispondono sostanzialmente all’abbandono di una soluzione ideologica a vantaggio di una soluzione pragmatica, de-ideologizzata – è nelle mani degli Stati Uniti. L’Italia e l’Europa devono premere sugli Usa per due essenziali obiettivi. Il primo: Trump deve fermare Netanyahu, perché finché non si avrà un cessate il fuoco a Gaza, non si potrà avere la prospettiva di un processo verso una stabilizzazione complessiva. Il secondo: il presidente Usa non deve escludere la possibilità di dare qualcosa in cambio ai palestinesi. Il terzo: i Paesi arabi e in primis l’Arabia Saudita hanno bisogno di un’azione forte da parte degli Usa, perché solo così saranno in grado di muoversi verso una soluzione.
Ha parlato di Paesi arabi. Qatar, Arabia Saudita ed Egitto hanno sottoscritto ieri un appello rivolto ad Hamas in cui chiedono alla milizia di disarmarsi e abbandonare la sua presa su Gaza. Come vede questo appello?
Il punto è che nessun Paese arabo sinora ha seriamente premuto su Hamas, a parte i negoziatori del Qatar e dell’Egitto. Io sarei lietissimo se i Paesi arabi ora si muovessero nei confronti di Hamas, perché alla radice del problema c’è l’organizzazione terroristica. Non dimentichiamoci ciò che Hamas ha compiuto il 7 ottobre. Qualcuno può dire che la reazione di Israele è stata esagerata, però è Hamas che non vuole liberare gli ostaggi, è Hamas che detta sempre nuove condizioni nel negoziato. Quindi serve pressione su Hamas, perché non si può immaginare un dopoguerra a Gaza con la presenza del gruppo terroristico. E poi serve che i palestinesi si dotino di un interlocutore palestinese credibile, che non può essere Hamas e non può essere l’Autorità Nazionale Palestinese.
Hamas sta traendo profitto dalla sempre più pesante condanna internazionale nei confronti di Israele?
Hamas ha tutto l’interesse a screditare il proprio nemico internazionalmente. Lasciamo un attimo da parte torti e ragioni. Di fatto, in questo momento, c’è un virtuale isolamento di Israele e del governo israeliano sulla scena internazionale. E questo è uno degli obiettivi di Hamas: non fare la pace, non accettare la tregua, portare Israele a reagire con una soluzione militare – quando ormai è chiaro che Israele punta a questo – e la soluzione militare provoca un ulteriore isolamento di Israele. È quello che tecnicamente definirei un “avvitamento”.
Ma come ha fatto Israele a non accorgersi di questa trappola?
Credo che nelle decisioni del governo israeliano abbiano avuto la prevalenza alcuni elementi. Israele non vuole mai più trovarsi ad essere sotto attacco del terrorismo jihadista e questo obiettivo prevalente ha fatto considerare accettabile ogni altro costo. Il secondo elemento è l’idea che gli ostaggi, a questo punto, si liberino con le armi e non in altro modo, costi quel che costi. Il terzo elemento è che la campagna militare israeliana comunque è andata bene perché Israele oggi si trova in una condizione di maggiore sicurezza all’interno della regione rispetto al passato. Su questa base il governo israeliano continua.
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