"Più che da Mamdani, i segnali a Trump arrivano da California e Virginia"
Intervista con Marco Bardazzi giornalista e scrittore, a lungo corrispondente dagli Stati Uniti: "Da New York arriva un'iniezione di fiducia ai dem dopo un anno devastante, ma in un certo senso è il miglior regalo che si potesse fare a Trump, il nemico ideale". Interessanti invece altri risultati nella notte elettorale, da cui i democratici sperano di ripartire. "A livello nazionale la ricetta è ancora da trovare".
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La vittoria di Zohran Mamdani a sindaco di New York, i successi di Abigail Spanberger e Mikie Sherrill a governatrici, rispettivamente, di Virginia e New Jersey, la vittoria in California sui distretti elettorali. HuffPost ha chiesto a Marco Bardazzi, giornalista e scrittore, a lungo corrispondente dagli Stati Uniti per l’Ansa, un commento sulla notte elettorale da cui i democratici sperano di ripartire.
Che notte è stata per i democratici?
“In generale, penso sia stata una notte importante per i democratici dal punto di vista dell’entusiasmo, un po’ a livello nazionale. Quello di New York è un voto molto particolare. È stato senz’altro a sorpresa, perché soltanto un anno fa Mamdani era assolutamente fuori da qualsiasi radar. Insieme agli altri voti, mi sembra che dia un’iniezione di fiducia ai democratici, mentre si apre l’anno della corsa alle elezioni di metà mandato. Da qui a trasferirlo in una lettura nazionale legata all’idea che i dem abbiano trovato la ricetta anti-Trump, però, il salto è grande”.
Mamdani ha detto: “Abbiamo mostrato come sconfiggere Trump”. È così?
“Su questo sono un po’ scettico. Da un certo punto di vista, si potrebbe sostenere che Mamdani è il miglior regalo che i democratici potevano fare a Trump, nel senso che ora il presidente ha a disposizione un nemico contro cui scagliarsi nella sua città, da indicare agli elettori come esempio di una deriva eccessiva a sinistra da parte dei dem. È chiaro che la ricetta di New York non è detto che funzioni in Ohio o nel cuore del resto dell’America, anzi: di solito non è così. Basti pensare che tre ex sindaci recenti – Rudy Giuliani, Michael Bloomberg e Bill de Blasio – hanno tutti tentato carriere presidenziali che sono andate in maniera disastrosa. New York è un laboratorio interessante e importante, però molto spesso non è in sintonia con il resto del Paese. Ciò detto, non c’è dubbio che, dal punto di vista dell’entusiasmo e della carica, questo può essere molto utile per i democratici, che vengono da un anno devastante. Tra l’altro, questa elezione avviene proprio nell’anniversario della sconfitta di Kamala Harris. Da qui forse devono cominciare a ricostruire per mettere in piedi più una coalizione fatta di tante cose, incluso il modello Mamdani, che però ha bisogno di un leader, se si guarda alla presidenziali del 2028”.
Un leader che, al momento, non c’è.
“La ricetta è ancora da trovare. La linea Mamdani trasferita su scala nazionale significa fondamentalmente Alexandria Ocasio-Cortez come candidata alla presidenza, che è stata la sua sponsor in queste elezioni. Ocasio-Cortez rappresenta l’ala un po’ più radicale del partito democratico. Diverso è il caso del governatore della California Gavin Newsom, che da una posizione più di sinistra si è riposizionato in un centro quasi da MAGA di sinistra, e sta costruendosi un’interessante immagine di sfida a Trump usando gli stessi mezzi. Diverso è ancora il caso del governatore dell’Illinois J. B. Pritzker, che può essere un altro candidato, così come dell’ex capo dello staff di Barack Obama Rahm Emanuel, l’ex sindaco di Chicago che potrebbe essere un altro dei democratici duri, cinici e ‘trumpiani’ – da un certo punto di vista – che possono scendere in campo. Tuttavia, è ancora difficile vedere qualcuno che prenda un po’ la guida di tutto il partito. Ricordiamoci che Mamdani stesso non può candidarsi perché è nato fuori dagli Stati Uniti. Un altro modello interessante è quello di San Francisco, l’altra città che di solito si osserva come laboratorio: c’è un sindaco moderato da un anno, Daniel Lurie, che sta proponendo un riposizionamento al centro dei democratici. Ci sono tanti fenomeni diversi dentro il partito che competono per trovare spazio”.
Per oggi quello che arriva è un segnale di vita da parte di un partito che di batoste, negli ultimi tempi, ne ha prese parecchie… Oltre NYC, quali sono i successi più rilevanti?
“In particolare, la vittoria in Virginia, uno Stato molto importante da osservare nell’anno precedente alle elezioni di midterm. La Virginia che si sposta così nettamente verso i democratici è un segnale pericoloso per Trump, perché è alle porte di Washington ed è uno Stato che oscilla tra i repubblicani e i democratici”.
E poi c’è la California, forse il boccone più amaro da digerire per Trump.
“Proprio così. Per gli elettori italiani è un po’ complicato, ma quello che successo nel voto in California è molto importante. È stato un voto per approvare una legge che permette di ridisegnare i distretti elettorali. Nel nord della California ci sono almeno cinque distretti che sono molto repubblicani; glieli ridisegnano in modo da arrivare fino alla periferia di Sacramento, dove invece ci sono tanti elettori democratici. In pratica, hanno trovato il modo – a tavolino – per ridisegnare i distretti e aumentare le chance di vittoria dei democratici, e così probabilmente vincere la Camera al Congresso il prossimo anno. È una mossa molto importante, contro qualcosa di analogo che i repubblicani stanno facendo in Texas e in altri Stati. Anche questo è un segnale di vita del partito democratico, perché spostare la Camera – anche solo per uno o due voti – nel campo dei dem, significa che negli ultimi due anni del suo mandato Trump non avrà la libertà di manovra che ha oggi, e sarà frenato da tanti punti di vista”.
Torniamo un attimo a Mamdani. Come le è risuonata la sua uscita diretta a Trump (“so che ci senti, alza il volume”)? Una provocazione da GenZ o un guanto si sfida?
“Mamdani è un grandissimo comunicatore, in un anno è riuscito a creare un movimento di entusiasmo incredibile proprio grazie alla sua capacità comunicativa. Stanotte era il momento giusto per lanciare un po’ la sfida all’avversario reale di queste elezioni, che per lui non era più tanto Andrew Cuomo, che ormai era sconfitto, quanto già il presidente. È una sfida molto coraggiosa, perché Trump gli tirerà addosso tutto quello che può, dal taglio ai finanziamenti federali per NY fino ad arrivare alla possibilità che mandi – come ha fatto a Chigaco – la Guardia nazionale nelle strade di Manhattan, sostenendo che la città è ingestibile e pericolosa. Per Mamdani, si prepara un periodo di duro confronto con Trump. Mamdani ha fatto promesse molto forti: autobus gratis, sostegno per l’assistenza ai bambini, case gratis… Tante misure che devono essere a favore delle classi più disagiate, tante sfide al costo della vita a NY – che effettivamente è fuori misura – ma tutto questo finanziato con un aumento delle tasse ai ricchi che bisogna vedere se funzionerà, e sul quale poi il sindaco ha potere fino a un certo punto”.
Trump ha detto: abbiamo perso perché non c’era il mio nome e per lo shutdown. Il sottotesto è che 1) senza di lui il partito è nullo, 2) i dem hanno fatto bene a sfruttare lo shutdown…
“È una sintesi efficace. Lo shutdown è stato il primo segno di vita che i democratici hanno dato dopo un anno di tentativi di riprendersi dalla batosta della sconfitta di Kamala Harris, e sta andando avanti – ha raggiunto ormai il record di durata – ed è un braccio di ferro su cui Trump si sta rendendo conto di dover in qualche maniera cedere. L’accenno al suo nome sulla scheda è un altro segnale importante per il suo partito: ‘vedete, quando non ci sono io, perdete’. Questo sarà decisivo non solo e non tanto nelle elezioni di midterm dell’anno prossimo, che sono il momento chiave per capire cosa ne sarà del secondo mandato di Trump, quanto per vedere quale sarà la successione al presidente”.
Si scorge qualche successore di Trump all’orizzonte?
“Si comincia a vedere qualcosa. Durante il viaggio in Asia, gli è stato chiesto più volte dai giornalisti se, in qualche maniera, pensa ancora di trovare un modo per candidarsi nel 2028. Lui è stato molto sincero, a un certo punto, ne dire: ‘no, la Costituzione non me lo permette, non riesco a farlo’. Vedremo se resterà sincero anche nei prossimi anni. Però ha cominciato a dire: ‘guardate che ci sono già quelli che possono prendere il mio posto’. I nomi sono J. D. Vance e Marco Rubio, che ha già indicato un po’ come suoi successori e come quelli che magari si scanneranno tra di loro per la successione. Intorno, però, ci sono diversi altri nomi. La successione a Trump sarà un bagno di sangue, da tanti punti di vista: in campo scenderanno in tanti, e il leader dovrà dire che appoggia, ma sappiamo che sono abituati a farsi guerra in maniera abbastanza feroce dentro il mondo Maga”.
di Giulia Belardelli su Huffpost
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